Fino all’inizio del 1500, anche se i re di Napoli e i più grandi feudatari erano stranieri, tuttavia il regno aveva conservato una sua autonomia e indipendenza. Con Carlo V il regno diventò una provincia o dell’Impero o del regno spagnolo o del regno francese e a governarlo erano dei vicerè, di solito stranieri. I sudditi divennero così servi dei servi.
Già dalla fine del 1400, la frammentazione dei grandi possedimenti, l’assenza di infrastrutture che rendeva ardui i collegamenti e i trasporti e la distanza dalla capitale resero i feudatari padroni assoluti dei feudi.
Nel 1530, con l’ultima rivolta baronale, si aprì la seconda fase feudale. Mentre nella prima fase l’assegnazione dei feudi era operata dai monarchi ed avveniva per motivi politici, in questa nuova fase i feudi divennero ereditari ed oggetto di compravendita.
Nel corso del 1500 molti grandi feudi calabresi, afflitti da esorbitanti debiti, tracollarono economicamente e molte grandi famiglie furono costrette a vendere i loro possedimenti a personaggi nuovi, finanziariamente più forti. Fù il destino dei Sanseverino di Bisignano, dei Carafa di Santa Severina, degli Spinelli di Cariati, dei Carafa di Castelvetere. Gli unici a salvarsi furono i Ruffo di Scilla e di Bagnara. Venne a formarsi così una nuova nobiltà.
Nel 1500 e nel 1600 le coste calabresi, più severamente quelle ioniche, in maniera meno devastante quelle tirreniche, furono interessate dalle incursioni dei barbareschi, al soldo anche dell’impero turco, i quali assalivano con agguati città, villaggi e borghi costieri razziando beni e catturando uomini, da destinare al remo, donne e fanciulli da destinare al mercato degli schiavi o agli harem. La vittoria di Lepanto sui Turchi da parte delle armate cristiane rallentò il fenomeno ma non lo eliminò, anche per la complicità di popolazioni e rinnegati calabresi per protesta contro il malgoverno spagnolo.
Dal 1564, per proteggersi contro queste incursioni, venne iniziata la costruzione di torri costiere, per ordine dei vicerè, ma a carico delle popolazioni comprese nella fascia delle 12 miglia dalla costa, con l’imposizione di 22 grana a fuoco, onere insostenibile da molte comunità. Nelle vicinanze del territorio tortorese ricordiamo le torri di S.Nicola e di Fiuzzi a sud, la torre Caina a nord.
Comunque la presenza di queste torri si è dimostrata utile per il respingimento di tentativi di sbarchi ed assalti da parte di pirati turcheschi in più occasioni a Scalea, a San Nicola Arcella, a Fiuzzi. In quest’ultima localita nell’agosto del 1600 una schiera di corsari turcheschi, sbarcati sulla spiaggia da sei vascelli per compiere razzie, fu respinta dai difensori della torre che ne uccisero parecchi. Nello scontro fu mortalmente ferito il torriere Vitigno che morì poco dopo nella grotta del Leone dove si era rifugiato. Furiosi per lo scacco subito i corsari, capeggiati da Amurat rays, tentarono di sbarcare a Scalea in due riprese, ma ne furono respinti nonostante il tradimento del torriere di guardia. Nel secondo scontro perse la vita il principe di Scalea Francesco Spinelli1.
Nel corso del XVII sec. la Calabria fu scossa dalla congiura campanelliana e travagliata dalla crisi economica degli anni ’20-’40 per calo della produzione, dalla rivolta del 1647-48 nel Cosentino e nel Catanzarese, dalla peste del 1656-57, dal terremoto del 1659, dalla carestia del 1671-72, dalla guerra di Messina del 1674-78.
A fine 1600, con Francesco I, il vicereame di Napoli passò sotto il controllo francese.
Il feudo di Tortora nel 1496 fu donato a Giovanni de Montibus, barone di Aieta, Abatemarco e Cirella, dal re Ferdinando II come ricompensa per i servizi ed aiuti prestati alla corona in occasione dell’occupazione del regno da parte di Carlo VIII.
Nel 1505 ereditò i feudo Margherita de Montibus.
Nel 1560 il feudo fu acquistato da Bernardino Martirano, barone di Aieta. La comunità di Tortora, stanca delle vessazioni e dei soprusi, si affrancò pagando ai Martirano una rendita annua, ma l'onere era troppo alto per le sue possibilità effettive. Così, dopo appena cinque anni, l’Università di Tortora nel 1565 fu costretta a vendere il feudo a Elvira Ossonia vedova dello spagnolo Gerolamo Exarquez. Da questo momento Tortora divenne feudo a sé.
Nel 1602 Tortora fu venduta dagli Exarquez a Carlo Ravaschieri, i cui eredi perdettero il possedimento per non aver fatto onore ai debiti. Così nel 1692 il feudo di Tortora fu venduto all’asta e comprato da Diego Vitale di Cava dei Tirreni.
A metà 1600 anche Tortora fu afflitta dalla pestilenza che in quegli anni investiva il vicereame. I morti furono tanto numerosi che i sotterranei delle chiese non furono più sufficienti ad accoglierli per cui fu necessario gettarli nella cisterna del chiostro del convento (tradizione popolare ascoltata dallo scrivente direttamente dalla bocca delle persone anziane negli anni '40 e '50 del secolo scorso), cisterna bonificata solo qualche anno dopo per ordine del vescovo. I resti furono inumati in una fossa comune dietro il convento. La tradizione dice che il numero dei decessi fu tanto elevato che, poiché non c’era più nessuno che prelevasse i morti dalle abitazioni, gli stessi ammalati, sentendo prossima la fine, si trascinavano in chiesa e si accoccolavano nei pressi della botola della fossa comune, e una volta morti, gli altri ammalati che giungevano li spingevano giù e ne prendevano il posto.
(Vedi Storia della Calabria nel Rinascimento e Storia della Calabria moderna e contemporanea - Gangemi Editore.
Dal 1524 a Tortora ebbe inizio la registrazione dei battesimi dei neonati quattro decenni prima che i decreti del Concilio di Trento nel 1563 divenissero esecutivi e rendessero obbligatorie l'istituzione e la tenuta dei registri parrocchiali.
Michelangelo Pucci
[1] - G. Celico – Santi e Briganti del Mercurion – Editur Calabria 2002 – pag. 43