- una serie di terremoti in Calabria: 1702, 1703, 1706; che misero in ginocchio l’economia della parte meridionale della regione
- massicce incursioni barbaresche soprattutto sulle coste ioniche concentrate nella zona di Cirò e Catanzaro: 1707, 1711, 1712, 1717; il conseguente invio di un naviglio per la difesa di questi litorali comportò per gli abitanti un notevole aggravio delle loro condizioni, essendo a loro carico le spese per la manutenzione delle navi e per il mantenimento delle ciurme
- una epidemia epizootica: 1711 e 1712;
- carestie: 1717 e 1719.
Tutto ciò rese i Calabresi indifferenti a quello che avveniva a Napoli.
Nel 1734, in occasione della guerra tra Austria e Spagna, lo spagnolo don Carlos, dopo aver sconfitto gli Austriaci, conquistò Napoli e proclamò l’indipendenza del regno. Nell’anno successivo venne incoronato re e riconosciuto con la pace di Aquisgrana del 1748.
Don Carlos assunse il titolo di Carlo III. Egli cominciò una energica azione riformatrice dello Stato volta al riordino della legislazione e dell’amministrazione della giustizia e mirata all’affermazione del potere regio contro le spinte settoriali dei poteri ecclesiastici e feudali.
Contro la tendenza dell’aumento della popolazione del regno fino al suo raddoppiamento, in Calabria si ebbe un calo demografico che mise in crisi il sistema produttivo agricolo per mancanza di braccia. A questo si aggiunga che, per la precarietà dell’economia regionale, bastava una avversa congiuntura climatica o un cattivo raccolto per mettere in ginocchio tutta la base della piramide sociale.
Gravi furono le conseguenze della carestia del 1763 e del terremoto del 1783. Quest’ultimo fu l’occasione che diede il via alla soppressione di tutti i monasteri e conventi con meno di 12 individui e all’incameramento delle loro rendite e dei loro beni, venduti o dati a censo e all’operazione di recupero dei beni ecclesiastici per finanziare la ricostruzione.
Tra il 1786 e il 1789, con il primo ministro Domenico Caracciolo, ebbe inizio il distacco dall’influenza spagnola e una politica antifeudale e si rafforzò quella antiecclesiastica, per cui una notevole parte delle proprietà ecclesiastiche passò alla proprietà privata soprattutto dopo la morte di Carlo III (1788) con il nuovo re Ferdinando IV.
L’ultimo decennio del secolo il governo napoletano fu impegnato nelle riforme, comprese quelle volte all’abolizione dei diritti feudali che limitavano il pieno godimento delle proprietà private.
Il secolo si chiuse con i drammatici fatti della rovinosa campagna contro la Repubblica Romana con la sconfitta a Roma di Ferdinando IV ad opera dell’armata francese che invase in regno.
La Repubblica Napoletana del 1799 ebbe vita breve per l’azione di riconquista del regno da parte del cardinale Fabrizio Ruffo.
Tutti questi eventi non scossero più di tanto la vita tortorese. Il feudo di Tortora fu acquistato nel 1692 da don Diego Vitale, i cui eredi ne rimasero padroni per tutto il secolo.
Diego, con il titolo di barone di Tortora, adottò dei provvedimenti per migliorare i beni del feudo e per incrementarne le rendite, stabilì rapporti di intesa e collaborazione con l’Università di Tortora, a favore della quale rimise un credito e cedette dei diritti precedentemente appannaggio feudale.
Ma la vita della gente comune, sottoposta ad oppressioni e pressioni fiscali, continuò a trascinarsi nella povertà tra privazioni e sacrifici, tanto che a fine secolo, a parte l’alta mortalità, furono tanti quelli che lasciarono il territorio.
L’esosità feudale era tale che anche le famiglie più in vista rifuggivano dall’assumere cariche pubbliche per non divenire strumento di oppressione dei poveri a favore del potere, prova ne fu il caso dei Di Capua che nel 1784 rifiutarono la designazione alla carica di sindaco, contro la quale ricorsero con successo alla Regia Corte di Napoli.
Michelangelo Pucci