Fino agli anni ’50 ogni famiglia tortorese panificava in casa. Il procedimento aveva inizio con la macinatura del grano in uno dei due mulini funzionanti lungo la Fiumarella: uno era in località 'Gramijùolu' vicino al ‘Pondi d’Ajìta’, l’altro ‘ànnu Livìtu’, i sacchi erano portati in testa dalle donne o a dorso d’asino.
Intanto nei giorni precedenti ci si erano procurate delle fascine di frasche secche e di erica (ruséddi).
La panificazione vera e propria avveniva in casa. All’alba la padrona di casa nelle famiglie contadine, o la donna di servizio o una donna a giornata nelle famiglie signorili, si metteva in opera per cernere con uno staccio la farina direttamente nella madia. Fatta una conca nella farina vi aggiungeva il sale, vi versava acqua tiepida e vi scioglieva il lievito, un piccolo pane crudo preso dall’impasto lievitato della panificazione precedente. A poco a poco, con il lievito così diluito, amalgamava tutta la farina continuando a lavorare il miscuglio con i pugni fino ad ottenere un impasto omogeneo.
Lasciatolo riposare un po’, lo divideva in pani più grandi, più piccoli e in ciambelle (sc’canatùra), che riponeva su un telo di lino a trama grossa steso su un tavolo, vi tracciava sopra un’incisione a croce e li ricopriva prima con un altro telo a trama grossa di lino (più anticamente di fibra di ginestra) interponendolo tra un pezzo e l'altro per non farli attaccare e poi con coperte di lana.
Quando cominciavano a lievitare, la massaia accendeva il fuoco nel forno alimentandolo con le frasche fino a che la volta del forno (prima nera, poi bianca,) non fosse diventata per la seconda volta di color rosa usando nell’ultima fase la fascina di erica (pigliéa’ la ròsa).
Il colore rosa era il segno che il forno era alla temperatura giusta. Con un attrezzo di legno accantonava i carboni da un lato del forno e puliva il resto con il frusciandolo (scùopulu). Prendeva i panetti, li spianava a mo’ di focaccia su una pala di legno larga, li cospargeva di olio praticandovi numerosi incavi con le dita, li infornava a forno aperto nella parte pulita. Dopo pochi minuti 'li pìtti’ erano pronte.
Ridava calore al forno per riportarlo alla temperatura giusta, asportava i carboni in eccesso, con gli altri creava un piccolo argine all’imboccatura, infornava con una pala di legno più piccola li tòrtani (ciambelle) e i pani, tracciandoci un segno di croce.
Quando tutti i pani erano sistemati nel forno, ridava un altro po’ di calore e ne sigillava la bocca con il chiusino di lamiera (mésa). Dopo alcune ore, a cottura avvenuta, tirava fuori le ‘panelle’ (panéddi) e le sistemava su un tavolo per il raffreddamento.
Le ‘pitte’ servivano parte per il consumo immediato della famiglia e parte erano distribuite a parenti e vicini con l’obbligo di scambio quando a loro volta panificavano.
Le ciambelle erano date ai poveri.
Michelangelo Pucci