Toponimo è assai diffuso nell’area greca sia nella madre patria sia nelle zone di influenza come le colonie, specialmente per designare località in cui si trovano antiche rovine di città fiorenti nelle età preellenica, ellenica ed ellenistica. Fra i tanti siti ne sono esempi la Pelècastro di Karditza in Acarnania regione della Grecia occidentale, la Palècastro centro minoico della zona orientale dell’isola di Creta, la Palècastro località dell’Aspromonte ad ovest di Bovalino e, infine, a noi più vicina, la Palècastro località di S.Maria del Cedro frazione di Marcellina.
Il nome fu attribuito al colle tortorese presumibilmente in epoca bizantina, allorquando l’abitato (nuova città) fu spostato nel pianoro di S. Brancato, come attesta il ritrovamento delle fondazioni di una chiesa, di stile bizantino per alcuni o longobardo per altri, in funzione tra il VI-VII secolo e il XII secolo, secondo la datazione degli esperti. In questo periodo il territorio fu frequentato da monaci semieremitici greco-bizantini. Il resto del sito non è stato ancora indagato.
La vetta del colle è una spianata di forma irregolare il cui livello va dai 100 metri del bordo ai 115 della parte più alta. Il piano copre una superficie di circa 5 ha per una lunghezza di circa 325 m. e una larghezza massima di circa 250 m. . Il suolo è costituito di terra rossiccia mista a sbrecciame dai grani arrotondati di origine fluviale. I declivi sono a forte pendenza sui lati est e sud sulla valle della Fiumarella, a pendenza più dolce sul lato ovest verso le contrade Poiarelli e Lardarìja. Al lato nord il colle è separato dal pianoro di S. Brancato da una sella costituita da brecciame arrotondato di tipo alluvionale, segno che in un’era geologica non lontana (circa 1 milione e 800.000 anni fa) a quel livello si trovava il greto della Fiumarella o la spiaggia.
Sull’orlo del pianoro è in evidenza una cinta muraria, di fattura lucana e romana, di circa 1000 m. di lunghezza e mediamente di 2,60 m. di spessore, realizzata nella faccia esterna da grandi pietre a secco rozzamente intagliate.
Recenti scavi hanno messo in luce tracce di un abitato Enotrio, maggiori evidenze di un abitato lucano e, sovrapposte, fondazioni di abitazioni romane con un tracciato di vie urbane e di un foro. Tronconi di muri appartenenti a tre tempietti, adiacenti il foro, sono stati sempre in vista.
Non sappiamo con assoluta certezza come si chiamasse questa cittadina nel periodo enotrio. La tradizione ha sempre indicato il Palècastro come il sito dell’antica Blanda. Il toponimo è già attestato sicuramente all'epoca della dominazione lucana, Tito Livio, in 'Ab Urbe Condita', XXIV, 20, la cita fra le città conquistate dal console Quinto Fabio nel 214 a.C., ciò significa che questo fosse il suo nome nel periodo lucano.
Anche se il nome non è ancora apparso in nessuna iscrizione, gli esperti confermano la voce popolare.
L'approvvigionamento idrico per usi domestici era assicurato da cisterne rifornite dall'acqua piovana defluente dai tetti delle case. Quello per uso potabile era assicurato da fontane sorgive a polla (di forma circolare del diametro tra i 120 e i 150 cm) che bulicavano ai piedi del colle delle Crisose, in contrada Pèrgolo a poca distanza dal Mausoleo. Queste fontane non sono più visibili in quanto interrate sotto la superstrada.
Gli scavi archeologici attestano la presenza sul colle di resti fittili di vasellame databili fino ai primi decenni del secolo V d. C. e, in maniera più rada, di resti fittili databili alla seconda metà del V e al VI secolo d. C.. Ciò induce ad opinare una prima devastazione nella prima metà del V secolo, una frequentazione più scarsa nella seconda metà del V e nel VI secolo, seguita da un abbandono definitivo.
Così, si può supporre che nella prima metà del V secolo d.C. il Palèstro abbia subito saccheggi e devastazioni molto probabilmente ad opera dei Vandali nel corso delle loro scorrerie dal mare e che nel corso del VI secolo d.C. sia stato abbandonato definitivamente, quasi sicuramente distrutto o dai Goti o dai Longobardi, ma la zona circostante come S. Brancato ha continuato ad avere una cospicua presenza umana con insediamenti agricoli sparsi nel territorio tra le attuali Maratea e San Nicola Arcella (vedi più avanti: i Bizantini). Lo spostamento dell’abitato a San Brancato, sito meno visibile dal mare rispetto al Palècastro, attesta che i distruttori erano venuti proprio dal mare e che i Blandani temevano ulteriori minacce da quella parte.
Nei secoli successivi il pianoro sommitale, così come i terrazzi sottostanti, è stato destinato a campo di cereali con conseguenze disastrose per i ruderi dell’antica città. La lavorazione agricola del suolo ha spianato, frantumato, disperso ed interrato le tracce urbane. I resti fittili sono finiti nella discarica ancora visibile fino a pochi decenni fa sotto le mura del lato sud, mentre quelli litici sono serviti per la costruzione dei muri a secco di contenimento dei terrazzamenti del colle. Proprio in questi occasionalmente sono emerse nel tempo, soprattutto all'epoca della costruzione della strada carrabile per Tortora, oggi via Provinciale, numerose tombe lucane a cassa e romane, non ancora indagate dagli archeologi.
Le arature del piano di vetta nei secoli hanno restituito frequentemente monete e materiale fittile come frammenti di lucerne, di vasellame di uso domestico e di decori edilizi ed architettonici. Nel 1970 lo scavo di una trincea per la posa di un acquedotto, oltre alle solite monete e al materiale fittile, ha portato fortuitamente in superficie il cippo litico con iscrizione in latino del monumento eretto nel I secolo d.C. al duunviro M. Arrio (vedi nel capitolo Monumenti).
C’è da supporre che dopo l’abbandono il centro abitato sul Palècastro sia diventato la cava di prelievo di materiale edilizio per la costruzione dell’altra Blanda a S.Brancato e successivamente di Julitta (Tortora): sicuramente, secondo la tradizione popolare, le quattro colonne della chiesa parrocchiale, ipoteticamente pezzi di decoro delle case signorili. Forse anche il portale litico della cappella del Purgatorio è di questa provenienza, ma è tutto da provare.
Michelangelo Pucci