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Storia (31)

 

Fonti


Le ultime ricerche di Biagio Moliterni e scoperta di altri documenti sul passaggio di Garibaldi per Tortora

Testi originali dell'epoca dei diretti interessati all'impresa danno un supporto documentale alla tradizione orale riportata dal prof. Amedeo Fulco nel suo libro "Memorie storiche di Tortora".

Garibaldi a Tortora: una conferma.
La sera di domenica 2 settembre 1860, Garibaldi, in marcia verso Napoli, lasciò la relativamente comoda e di certo più sicura strada consolare che conduceva nella capitale del Regno delle Due Sicilie e, da Rotonda, si inoltrò in direzione della costa tirrenica attraverso impervi sentieri e con pochi uomini al seguito.

La mattina seguente sostò a Tortora e nel pomeriggio, via mare, raggiunse Sapri, dove fu accolto da alcune migliaia di patrioti che vi erano sbarcati il giorno precedente, sotto il comando di Stefano Türr.
Il Generale, dopo aver trascorso la notte a Vibonati, il 4 settembre si portò sul passo del Fortino, presso Lagonegro, e riprese la strada principale che aveva abbandonato a Rotonda: in questo modo evitò di imbattersi nei circa 3000 soldati borbonici del generale Caldarelli che, in ritirata, erano attestati nel territorio di Castelluccio e avrebbero potuto procurargli qualche sgradita sorpresa.
Garibaldi poté quindi proseguire agevolmente per Napoli, anche perché, nel frattempo, erano andate a buon fine le trattative segrete con il Caldarelli, il quale, avute tutte le rassicurazioni richieste, si convertì alla causa unitaria.
Questa ricostruzione degli eventi è certamente la più attendibile fra le tante che sono state fatte e, per quanto riguarda la sosta tortorese di Garibaldi, si basa essenzialmente sulle ricerche dell’indimenticabile prof. Amedeo Fulco, il quale, anche sulla scorta delle dichiarazioni di alcuni testimoni dell’accaduto, ebbe il merito di colmare il vuoto di notizie lasciato dalle fonti ufficiali garibaldine.
Senza il suo fondamentale contributo, ad esempio, nulla avremmo saputo della vicenda di cui fu protagonista il notaio Francesco Marsiglia, l’unico notabile del paese rimasto fedele al regime borbonico, che, per essersi rifiutato di rendere omaggio a Garibaldi, avrebbe rischiato di essere passato per le armi. Egli però, grazie all’intervento del sacerdote don Mansueto Perrelli, sarebbe stato risparmiato dal Generale, che avrebbe strappato in quattro pezzi il biglietto sul quale era stata vergata la condanna a morte.
Garibaldi, a salvaguardia della propria incolumità, prese comunque in ostaggio il giovane figlio del notaio, il sedicenne Domenico, che liberò nel primo pomeriggio, ovvero nel momento in cui il gruppo dei garibaldini, lasciata Tortora, raggiunse la costa e si imbarcò per Sapri.
Oggi, a distanza di mezzo secolo dall’uscita delle 'Memorie storiche di Tortora', la vicenda narrata dal Fulco trova conferma e si arricchisce di ulteriori particolari, grazie a una più attenta lettura del diario di Agostino Bertani, il medico e patriota milanese che seguì Garibaldi da Palermo a Napoli. Secondo quanto riferisce Jessie White Mario (Agostino Bertani e i suoi tempi, Firenze 1888, vol. 2, pp. 184-185), Bertani così descrisse il viaggio dei garibaldini da Rotonda al mare: «Alle otto e mezzo [della sera] il generale, Cosenz, io, Rosagutti, Nullo, Basso, Gusmaroli sui muli, cavalchiamo per strade orribili. Il generale alla testa, noi seguendo in silenzio. La luna splende sui monti; l’aria fresca ci tiene svegli. Scena caratteristica: un prete concitato vuole l’ordine d’arresto per il notaio Marsigli che accusa di delitti reazionari; reclama giustizia pel martirio sofferto: il popolo si affolla, mormora contro il prete. Entra il sindaco; risulta che il prete è cattivo e fanatico, che suo fratello ha defraudata la sorella del notaio. “Fate far la pace voi, mio bello,” dice una buona vecchierella al generale il quale, ordinando il rilascio del notaio, raccomanda la pace fra le due famiglie; al popolo di armarsi per combattere. Il prete furioso! Nella sua faccia, nel suo inveire si vede il reazionario; chi sa quanto male ha fatto e farà. Per la costa del monte arriviamo in vista della spiaggia. Giunge una barca da Maratea. Tutti sette vi entriamo».
L’anticlericale Bertani, dunque, relegò la «scena caratteristica» a una semplice bega di paese e sottolineò il ruolo di paciere di Garibaldi, tacendo invece sui risvolti drammatici della vicenda e sul nome della località in cui avvennero i fatti. Oggi, proprio alla luce di quanto riferito dal Fulco, siamo in grado di affermare che la vicenda ebbe come sfondo proprio Tortora e che il «notaio Marsigli» è senza alcun dubbio don Francesco Marsiglia, mentre il «sindaco» che contribuì alla sua liberazione è da identificare con don Francesco Perrelli, fratello di don Mansueto, come è stato possibile riscontrare nei registri dello stato civile e in quelli dell’archivio parrocchiale.
Possiamo perciò dire che, al contrario di quanto si è ritenuto finora, esiste una prova scritta certa, esterna al ristretto ambito locale, che conferma il passaggio dell’Eroe dei Due Mondi per Tortora: il diario di Bertani, appunto.
Dalla sua lettura emergono inoltre altri due dati assai importanti sui movimenti di Garibaldi nei giorni 2 e 3 settembre.
Il primo è che egli lasciò Rotonda alle 20:30 del 2 e quindi non vi pernottò, come invece si ritiene comunemente.
L’altro è che vi si precisano, una volta per tutte, i nomi degli uomini che lo accompagnarono da Rotonda a Sapri: Cosenz, Bertani, Rosagutti, Nullo, Basso e Gusmaroli.
Un ulteriore elemento da tener presente è invece il biglietto nel quale Garibaldi comunicò a Stefano Türr l’ora esatta del suo approdo a Sapri, alle 15:30 in punto: «Sapri 3 settembre 1860. Generale Türr, sono qui giunto alle 3 ½ pom. Io marcerò colla vostra colonna Milano e Spinazzi sino a Fortino, lasciando qui un forte distaccamento. Mandatemi a dire dove si trova la brigata Caldarelli. In ogni modo speditemi notizie vostre a Padula, o venite in quel punto voi stesso» (Tratto dall’Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, vol. 11, Epistolario. Vol. 5: 1860 (a cura di Massimo De Leonardis), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988, p. 229).
Incrociando questo dato con quello della partenza da Rotonda, c’è da dire infine che l’ora dell’arrivo a Tortora e quello dell’imbarco per Sapri, fissati dal Fulco rispettivamente alle 10:30 e alle 14:00, vanno probabilmente rivisti.
Biagio Moliterni 
 
Ricostruzione della tabella oraria del passaggio di Garibaldi per Tortora
 
Finora per ricostruire il passaggio di Garibaldi per Tortora ci eravamo attenuti alla versione data da Amedeo Fulco nel suo libro “Memorie storiche di Tortora”. Rivediamola:
-         ore 4 di notte – partenza di Garibaldi da Rotonda;
-        due ore dall’alba – passaggio di Garibaldi per il passo del Carro, secondo la testimonianza di Paolo Maceri, raccolta dalla sua bocca da Amedeo Fulco personalmente e riportata nell’opera citata;
-         ore 10:30 di mattina – arrivo a Tortora Centro;
-         ore 14 - imbarco nei pressi del promontorio della Gnola di Castrocucco. 
Approfondendo l’analisi di questa tabella oraria notiamo subito che più di una cosa non quadra:
1 - l'indicazione dell'ora di partenza da Rotonda, ore 4, non è compatibile  con la testimonianza del Maceri che, riferendosi all'incontro con il gruppo di Garibaldi, attesta: "si era a due ore dall'alba". L'espressione non è chiara e univoca.
Se egli avesse inteso dire "due ore prima dell'alba", dal momento che il 3 settembre, alla nostra latitudine, l’alba fornisce una illuminazione in modo significativo intorno alle ore 5, dovremmo ipotizzare che l'incontro sia avvenuto intorno alle ore 3, cioè un’ora abbondante prima dell'ora di partenza da Rotonda. L'ipotesi è dunque da scartare. D'altronde , in questo caso, un linguista avrebbe usato l'espressione "due ore all'alba", il Maceri però non era un linguista.
Non rimane che accettare come veritiera l'ipotesi che egli avesse inteso dire "due ore dopo l'alba", cioè intorno alle ore 6:30 - 6:45 , comunque l'orario non si accorderebbe perfettamente con la successiva tabella oraria ricostruita sulla dichiarazione di Garibaldi sul suo arrivo a Sapri;
2 - inoltre la testimonianza del Maceri, da accettare nella sostanza sulla veridicità del fatto dell’incontro con Garibaldi, apre tuttavia la porta a delle perplessità circa i particolari forniti. Prima di tutto rimane da spiegare come poteva egli valutare con precisione le due ore essendo improbabile che avesse a disposizione un orologio, allora ritenuto un lusso fuori della portata dei contadini, dei pastori e a maggior ragione degli adolescenti. Comunque se l'indicazione dell'ora dell'incontro, due ore prima dell'alba,  fosse vera, resta da spiegare come mai egli si trovasse fuori casa di notte al buio, non certo per attività agricole o pastorizie. Tutto lascia pensare che la valutazione delle due ore, prima o dopo l’alba, sia molto approssimativa per difetto. Inoltre egli dichiara che il gruppo era costituito da cinque cavalieri, mentre noi sappiamo che era composto da sette cavalieri, scambiando per di più i muli per cavalli. Egli dichiara che Garibaldi "indossava calzoni grigi ... un fazzoletto di seta al collo", "la camicia rossa" e che "aveva gli occhi azzurri come il cielo". Se egli avesse incontrato Garibaldi due ore prima dell'alba, cioè in piena notte, anche se illuminata dalla luce del plenilunio appena trascorso, non avrebbe potuto discernere nettamente i colori dei vestiti e, soprattutto, il colore degli occhi e neppure la qualità del tessuto del fazzoletto. Ciò apre a due ipotesi: se l’incontro avvenne prima dell’alba, egli non ebbe il modo di osservare questi particolari ma col tempo integrò i suoi ricordi con le notizie apprese successivamente dai compaesani al suo rientro in paese; ma se veramente discriminò i particolari descritti, l'incontro avvenne alla luce del giorno, poco prima la levata del sole. Tenuto conto che questa il 3 settembre, prevista all’ora teorica delle 5:35, nella nostra situazione orografica si verifica all'ora effettiva delle 6:20, l’incontro deve essere avvenuto tra le ore 5:45 e le ore 6. Nel qual caso bisognerebbe arretrare la partenza da Rotonda a qualche ora prima delle 4. Due ore sembrano un po' poche per coprire la distanza Rotonda-Carro.
3 - L’arrivo alle ore 14 a Castrocucco  è in disaccordo con il testo del Trevelyan (vedi più avanti la citazione dell'opera) che recita: “nella mattina del 3 settembre raggiunsero la costa ad un certo punto non lontano da Tortora e Maratea”; le ore 14 decisamente non possono essere ritenute “mattina” ed incompatibile con quanto lo stesso Garibaldi comunica al gen. Türr (vedi più avanti la citazione dell'opera).

Per risolvere l'enigma ci vengono in soccorso le dichiarazioni dei diretti interessati, Garibaldi e Bertani, contenute in testi autentici degli stessi.
L’accesso a queste altre fonti più dirette ci impone di apportare alla tabella oraria del passaggio per Tortora degli aggiustamenti e delle precisazioni circa i personaggi protagonisti. 
Due sono le dichiarazioni che a noi interessano particolarmente:
-quella di Bertani secondo cui la partenza da Rotonda avvenne alle ore 8:30 (20:30) la sera del 2 settembre 1860 (vedi più avanti la citazione dell'opera);
quella di Garibaldi che attesta di essere sbarcato a Sapri alle ore 3:30 pomeridiane(15:30) del 3 settembre 1860 (vedi più avanti la citazione dell'opera). 
Ambedue le dichiarazioni segnano i termini, a quo e ad quem, di cui dobbiamo tener conto nella ricostruzione della tabella oraria del passaggio di Garibaldi per Tortora. 
La dichiarazione di Bertani richiede la ricostruzione della tabella oraria da Rotonda al Carro. La partenza da Rotonda alle 20:30 è compatibile con l’arrivo al Carro, se non alle ore 2-2:30 al chiaro di luna per le incongruenze sopra esposte, poco dopo l’alba, ora solita della levata di contadini e pastori, comunque non prima delle ore 5.
La dichiarazione di Garibaldi impone una ricostruzione della tabella oraria dal Carro a Sapri. L’attestazione dell’arrivo a Sapri alle ore 15:30 è incompatibile con la partenza dalla Secca alle ore 14, per coprire la distanza Secca-Sapri una piccola barca carica spinta da due rematori, a dire di pescatori del posto, impiega non meno di 4 ore. Da ciò si deduce che dobbiamo collocare la partenza dalla Secca almeno 4 ore prima delle 15:30, cioè alle ore 11:30. Calcolando almeno una mezz’ora per l’attesa della barca e per il breve incontro con i notabili del territorio che erano andati a salutare il generale e calcolando ad almeno un’ora il tempo per coprire la distanza Tortora-Secca, dobbiamo ipotizzare la partenza dal paese intorno alle ore 10, in accordo con il testo del Trevelyan (vedi sopra punto 3). Considerando ancora il discorso di benvenuto a Sandu Jaculu, la presentazione delle altre personalità della comunità, il trasferimento in casa Lomonaco, la colazione, la soluzione del caso del notaio Marsiglia, dobbiamo supporre la durata della sosta di almeno un paio di ore, che sottratte alle ore 10 fanno scivolare indietro l’ora di arrivo a Tortora intorno alle ore 8 di mattina; ora compatibile con la partenza dal Carro non più tardi delle ore 5:30-6 circa.

A queste conclusioni si è giunti con l'accesso ai seguenti documenti:

* I diario di Agostino Bertani, compagno inseparabile e spesso consigliere di Garibaldi, riportato da Jessie White Mario[1] in “Agostino Bertani e i suoi Tempi – ed. G. Barbera – Firenze 1888, pag. 455-456, nel quale l’autore riferisce: 
1 - che il gruppo protagonista del passaggio era costituito da sette persone: Garibaldi, Cosenz, Bertani, Rosagutti, Nullo, Basso, Gusmaroli; 
2 – che la partenza da Rotonda avvenne alle otto e mezza (20:30); 
3 – che il gruppo si servì per le cavalcature di muli; 
4 – che cavalcarono per strade (sentieri) orribili per l’intera notte illuminata dalla luce lunare (tre giorni dopo il plenilunio, nda). 
Bertani nel suo diario non nomina Tortora, né i vari personaggi tortoresi protagonisti dell’evento, ad eccezione della vicenda del notaio don Francesco Marsiglia, del quale era stata sollecitata da un prete a lui avverso una punizione, concretizzata da Garibaldi in un ordine di arresto, revocato poi per la disapprovazione della folla e per l’intervento del sindaco. L’episodio, interpretato dal Bertani come una bega tra famiglie, è effettivamente avvenuto a Tortora e trasmesso per tradizione orale popolare raccolta personalmente dalla bocca dei protagonisti da Amedeo Fulco che ne fa menzione nell’opera citata.
 
Il Bertani riferisce pure: 
5 – del tratto del viaggio lungo il versante della collina (San Brancato) in vista della spiaggia; 
6 – dell’arrivo della barca da Maratea; del viaggio per mare fino a Sapri.

* Il libro di Agostino Bertani – “L’epistolario di Giuseppe La Farina – Ire politiche d’oltre tomba – Tipografia di G. Polizzi e CO – Firenze 1869 – pag. 71 e segg. (questo opuscolo del Bertani è, appunto, la risposta dell’autore all’Epistolario di G. La Farina). 
In esso il Bertani, riportando brani del suo diario, ricorda la cavalcata notturna dei sette, alla luce della luna, in data 3 settembre “dal monte al lido di Maratea”, il viaggio per mare fino a Sapri e, con dovizia di particolari, la sosta al Fortino sulle montagne di Battaglia (SA) L’arrivo al mare e la partenza in barca dal lido di Maratea sottindente la discesa dalle montagne di Tortora, il percorso diretto e più breve tra Rotonda e il mare (vedi in 'galleria delle immagini' la carta geografica del territorio).

* L’opera di George Macaulay Trevelyan - Garibaldi and the Making of Italy - Forgotten books - ed. Longmans, Green and CO – 1911 pag. 157, nella quale l’autore riferisce la partenza del gruppo di Garibaldi da Rotonda, il loro percorso, per un tratto lungo la valle del Lao, e come “fuori della valle del Lao scalarono ancora una volta la parte più alta delle montagne, nella mattina del 3 settembre raggiunsero la costa ad un certo punto non lontano da Tortora e Maratea”. Questo attesta che il gruppo ad un certo punto, dopo Laino, abbandona la valle del Lao per salire le montagne. Ma l’unica mulattiera che da Laino porta al mare è quella che sale al passo del Carro e attraversa il territorio di Tortora e lo stesso paese.
 
Questi testi sono un’importante prova documentale che conferma il passaggio di Garibaldi per Tortora.

* In un altro documento Garibaldi dichiara di essere sbarcato a Sapri il 3 settembre 1860 alle ore tre e mezza pomeridiane. Si tratta di un biglietto in cui Garibaldi comunicò a Stefano Türr «Sapri 3 settembre 1860. Generale Türr, sono qui giunto alle 3 ½ pom. …”  - “Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, vol. 11, Epistolario. Vol. 5: 1860 (a cura di Massimo De Leonardis), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988, p. 229). 
 
Riassumendo, alla luce di quanto detto, la tabella oraria del viaggio di Garibaldi e i suoi sei compagni da Rotonda a Sapri si può ricostruire come segue: 
- ore 20:30 di domenica 2 settembre 1860 – partenza da Rotonda (“Alle otto e mezza … “ Bertani: in Bertani e i suoi Tempi); 
il gruppo procede a rilento per l’ora notturna (“Dopo una cavalcata, che durò più che un'intiera notte” - Bertani: in Ire politiche d’oltre tomba), per la stanchezza e il sonno (“l’aria fresca ci tiene svegli” - Bertani: in Bertani e i suoi tempi), per la cavalcata lungo sentieri fuori mano per evitare possibili imboscate (“cavalchiamo per strade orribili” – Bertani: in Bertani e i suoi tempi; “entrarono nella gola senza sentieri” – Trevelyan in Garibaldi and the Making of Italy; “scalarono ancora una volta la parte più alta delle montagne” – Trevelyan op.cit.); 
- tra le ore ore 5-5:45 circa di lunedì 3 settembre 1860 – transito per il passo del Carro in territorio di Tortora (Paolo Maceri: “si era a due ore dall’alba quando fui attratto dalla presenza di cinque uomini a cavallo apparsi ad un 30 metri circa da me … uno di essi mi chiamò … quando gli fui vicino, mi chiese … Garibaldi. Bello negli occhi azzurri come il cielo, … calzoni grigi, … fazzoletto di seta al collo” – Fulco: Memorie Storiche, op.cit.); viaggio più spedito per la luce del giorno, lungo una mulattiera la cui sicurezza era garantita dai notabili amici; 
- ore 8arrivo a Tortora (Bertani in "Ire politiche d'oltre tomba" usa l'espressione “Dopo una cavalcata, che durò più che un'intiera notte”; ciò significa che il gruppo arrivò in vista del mare nella prima mattinata dopo aver cavalcato in un arco orario che comprese tutta la notte e un paio d'ore di luce, essere arrivati in vista del mare in contrada Sarre era da ritenersi essere arrivati al mare); 
- ore 8-10 - sosta in casa Lomonaco; 
- ore 10 - partenza da Tortora; nel timore di una possibile imboscata da parte degli amici del Marsiglia, Garibaldi si premunisce prendendone in ostaggio il figlio giovinetto; 
- ore 11 - arrivo alla Secca, porticciolo naturale al confine sud del territorio di Maratea, in accordo con il testo del Trevelyan (vedi sopra punto 3); 
- ore 11-11:30sosta nella casa-torre dei Labanchi; saluto e omaggio da parte di altri notabili provenienti da Maratea e da Ajeta; 
- ore 11:30partenza dalla Secca; il traghettamento via mare era reso necessario dall’assenza di vie di comunicazione terrestri tra Maratea e Sapri (“Non c'è, e non c’è mai stata, una strada costiera” – Trevelyan, op.cit.) 
- ore 15:30arrivo a Sapri (Garibaldi a Turr: «Sapri 3 settembre 1860. Generale Türr, sono qui giunto alle 3 ½ pom. – op.cit.). 

 

[1] La Jessie era una giornalista inglese, autrice di vari libri tra cui quello citato. Conosciuto Garibaldi ne fu affascinata, conosciuto anche Mazzini, si schierò dalla parte dei patrioti italiani con varie iniziative, seguì Garibaldi nell’impresa dei Mille, nell’impresa dell’Aspromonte e nell’impresa dei Vosgi in Francia nel 1870.

 

Da Rotonda a Tortora a Sapri

A Rotonda
Garibaldi era arrivato a Rotonda il 2 settembre con la colonna del gen. Cosenz, aveva fretta di giungere a Napoli il più presto possibile, ma, a bloccargli la strada, a Castelluccio era attestato un contingente di 3.000  soldati borbonici agli ordini del gen. Caldarelli. In conformità alla politica adottata da Reggio Calabria in su, Garibaldi non aveva interesse a forzare il passo, atto di forza che sarebbe costato una inutile perdita di uomini e spreco di armamenti da ambo le parti. Ma 'mirando a non lasciare entrare quella truppa e quei cannoni a Salerno'1, egli  progettava di arrivare al disarmo dei borbonici attraverso due vie congiunte o alternative: attraverso la corruzione del comandante e/o attraverso la dissuasione per accerchiamento.  Intanto che le trattative fra i garibaldini e i borbonici del gen. Caldarelli approdassero alla resa di questi ultimi e alla loro adesione alla causa unitaria1, Garibaldi pensò di accelerare l'accerchiamento con i corpi che convergevano via mare a Sapri. Per procedere più velocemente in direzione di Napoli, egli aveva bisogno di congiungersi a loro via mare il più rapidamente possibile. A Rotonda fu accolto da don Bonaventura de Rinaldis e fu ospite della famiglia della vedova di Berardino Fasanelli. Una de Rinaldis era sposa di don Francesco Maceri, figlio di don Biagio Maceri, uno dei notabili più in vista di Tortora che tifava per la causa garibaldina2.

A Tortora
Per raggiungere il mare don  Bonaventura gli consigliò di risalire da Laino la valle del fiume Iannello seguendo la mulattiera fino al passo del Carro e di qui discendere la valle della Fiumarella lungo la mulattiera fino a Tortora, dove avrebbe trovato un ambiente favorevolepreparato da don Bonaventura; un corriere con una lettera per Don Biagio Maceri l'avrebbe preceduto nella notte, da Tortora avrebbe potuto raggiungere il mare. Accettato il piano, Garibaldi, accompagnato dai fedelissimi Cosenz, Bertani, Rosagutti, Nullo, Basso e Gusmaroli, partì da Rotonda nella tarda serata, intorno alle 20:301; forse nel timore di una qualche imboscata lungo la mulattiera solitamente frequentata dai locali, i sette misero in atto una manovra diversiva, fingendo di seguire per un tratto il corso del fiume Lao, presero ad un certo punto dei sentieri secondari salendo su per le montagne6 fino a raggiungere i Piani del Carro intorno alle ore 5:45 
una mezz'ora circa prima della levata effettiva del sole nel nostro contesto orografico
(ore 6:20). Qui, incerti sulla via da prendere per Tortora, chiesero informazioni ad un pastorello: Paolo Maceri, che fino a tarda età avrebbe ricordato e raccontato i particolari dell'incontro a chiunque fosse stato disposto ad ascoltarlo2. La mattina, intorno alle ore 8, il gruppo arrivò a Tortora dove trovò ad acclamarlo la schiera dei notabili, le autorità comunali e la folla dei paesani vestiti a festa organizzati e istruiti dai loro padroni. Era lunedì 3 settembre 1860. Dopo un discorso di benvenuto da parte di don Biagio Maceri, tra due ali di popolo festante e osannante, il gruppo di Garibaldi e quello dei notabili raggiunsero la casa dei Melazzi-Lomonaco in fondo al paese, dove Garibaldi e suoi sostarono per riposarsi e rifocillarsi2. Le fonti non ci dicono se la sosta del Generale sia costata la consegna della cassa comunale, secondo il suo costume, documentato in più casi, di svuotare la tesoreria dei paesi di passaggio della truppa, ma è ragionevole pensare di sì, perché egli non si accontentava delle sole parole di adesione, questa doveva concretizzarsi o con il contributo in uomini o con quello finanziario5

A casa Lomonaco-Melazzi

A casa di don Biagio Lomonaco-Melazzi, genero di don Biagio Maceri, gli ospiti furono fatti accomodare nel salone dove fu servita una colazione. Garibaldi si informò sul paese, sulle famiglie, soprattutto su quelle dei notabili e così emerse e fu notata l'assenza del notaio don Francesco Marsiglia, una delle maggiori personalità della comunità tortorese, devoto ai Borboni. Su questo episodio esistono due versioni che concordano sul se ma divergono sul come. La versione di A.Fulco2  il quale riferisce, ripetendo la tradizione orale, che la denuncia contro il Marsiglia era partita dal sindaco che aveva balenato il timore di possibili attentati da parte di uomini fedeli al Marsiglia; egli riporta pure che Garibaldi, seduta stante, ne ordinò l'arresto e la fucilazione immediata; il medesimo continua attribuendo all'intercessione del sac. don Mansueto Perrelli la revoca dell'ordine. La versione di Agostino Bertani1, presente al fatto, il quale invece afferma che la denuncia contro il Marsiglia era stata mossa da un prete che lo accusò di delitti reazionari, ma non fa cenno alla condanna a morte ma ad un semplice arresto; Bertani prosegue ascrivendo il rilascio dell'accusato all'intervento del popolo, del sindaco e di una 'vecchierella'.

Alla Secca di Castrocucco
Dopo la breve sosta di poco più di un paio d'ore a Casa Lomonaco, Garibaldi,a metà mattinata verso le ore 10, partì da Tortora prendendo precauzionalmente in ostaggio Domenico Marsiglia, giovane figlio di don Francesco Marsiglia, percorrendo la mulattiera che tuttora scende alla marina attraversando le contrade San Brancato, Crisose e Castrocucco. Qui giunto alle ore 11 circa, liberò l'ostaggio e, in attesa dell'imbarcazione, sostò nella casa-torre della Secca, ospite della famiglia Labanchi. Intorno alle ore 11:30 si imbarcò nel porticciolo che si apre ai piedi della casa-torre. 

Da Sapri a Napoli
Costeggiando al largo delle scogliere di Maratea e di Acquafredda, a bordo di una piccola barca spinta da due rematori, nel pomeriggio sbarcò a Sapri alle ore 15:303 unendosi ai contingenti sbarcativi nei giorni precedenti, fra i quali quello dei 1500 del gen. Turr1, sbarcatovi il giorno prima da Paola. Dopo aver pernottato tra il 3 e il 4 settembre a Vibonati in casa De Nicolellis, la mattina del 4 settembre, passando per Casaletto Spartano, Tortorella e Battaglia, attraverso il passo di monte Cucuzzo giunse e sostò alla taverna del Fortino, dove nel 1857 aveva pernottato Carlo Pisacane. A sera si fermò e pernottò a Castelnuovo (oggi Casalbuono) ospite della famiglia di Raffaele Sabatini. La mattina del 5 settembre si fermò fugacemente a Sala Consilina. Il 6 settembre fu a Salerno e l'otto settembre raggiunse Napoli5.

Motivi della deviazione per Tortora e Sapri
La deviazione per Tortora e Sapri fece parte di una strategia che mirava allo scopo politico di giungere a Napoli prima dell'arrivo di Vittorio Emanuele II. Egli sapeva  che  l'Armata Sarda, agli ordini del gen. Cialdini, era già attestata sul confine dello Stato Pontificio in attesa di marciare verso sud; se l'esercito piemontese fosse arrivato per primo a Napoli egli avrebbe perso il vantaggio politico che gli derivava dalla conquista della Capitale del Regno nella sua qualità di Dittatore dello Stato Napoletano, in vista del futuro suo e dei suoi garibaldini. Al fine di giungere a Napoli per primo, Garibaldi studiò due manovre: 1) quella di aggirare l'ostacolo, rappresentato dal corpo dei 3.000 borbonici agli ordini del gen. Caldarelli, che avrebbe potuto frenare la sua marcia; 2) di sbarrargli strada al passo del Fortino (in territorio di Battaglia), poco più a nord di Lagonegro. I borbonici però si dispersero prima e tornarono alle loro case per reazione al loro comandante, gen. Caldarelli, che voleva farli passare ai garibaldini4.

Fonti
Fra le prove sicure del passaggio di Garibaldi per Tortora ci sono anzitutto quelle orali raccolte appena due generazioni dopo l'avvenimento: 1) la tradizione popolare e familiare dei Lomonaco, attendibile poiché menziona fatti risalenti ad appena due generazioni prima che il Fulco la raccogliesse (il figlio di don Biagio Lomonaco, Guglielmo, è vissuto fino al 1923);  2) la testimonianza di Paolo Maceri, che, allora adolescente pastorello, aveva visto, al passo del Carro, passare il gruppo dei generali capeggiati da Garibaldi, al quale aveva anche fornito informazioni sulla via per Tortora; racconto da lui ripetuto infinite volte nella sua lunga vita1; la testimonianza è stata raccolta per ascolto diretto da Amedeo Fulco e riportata nell'opera citata; 3) la menzione dell'evento da parte dell'aietano don Pietro Lomonaco, fratello di don Biagio Lomonaco Melazzi, nel discorso commemorativo di Garibaldi, morto il 2 giugno 1882, tenuto il 9 luglio 1882 ai soci della Società Operaia 'Silvio Curatolo' della quale don Pietro era il presidente1.
4) Ultimamente si è avuto accesso a prove documentali scritte risalenti ai protagonisti diretti, soprattutto ad Agostino Bertani, segretario di Garibaldi nell'impresa dei Mille e testimone diretto (vedi note 1,6,7), evidenziati dallo studioso di storia locale Biagio Moliterni, che riportano circostanze riferibili con certezza al percorso Valle Lao-Tortora e, in particolare, l'episodio del notaio don Francesco Marsiglia, sicuramente avvenuto a Tortora (1) (cfr al precedente articolo "
Ricostruzione della tabella oraria del viaggio di Garibaldi da Rotonda a Tortora e a Sapri"). 
E' esistito un biglietto di Garibaldi del 7 febbraio 1875 da Roma, di cui circola qualche fototocopia, nel quale egli attesta la sua amicizia nei confronti del destinatario ma non il loro incontro a Tortora.
Nel biglietto si legge: 'Caro Melazzi - Grazie per la vostra del 1° e per il gentile ricordo, salutatemi il fratello e ricordatemi sempre. Vostro G. Garibaldi' (8).
Come si vede, nel biglietto non vi è alcun riferimento all'evento del 3 settembre 1860, ma uno scarno cenno ad un 'gentile ricordo' che potrebbe essere riferito a qualsiasi cosa o avvenimento, vi è, più semplicemente, il richiamo ad una precedente lettera di don Biagio Lomonaco a Garibaldi nella quale gli significava che lo ricordava ancora.
Un altro scritto, in possesso di Floris Lomonaco, attesterebbe la sosta di Garibaldi a Tortora in casa Melazzi Lomonaco il 3 sett.1860. (9)
Nel biglietto si annota: "Giuseppe Garibaldi, di passaggio alla conquista di Napoli, il 3 Settembre 1860, onorò colla sua dimora questa casa. A tanto uomo, il mondo intero s'inchina". Anche in questo caso non possiamo dire di trovarci sotto gli occhi un documento storico, ma piuttosto un testo pubblicitario che riprende la tradizione orale; il biglietto potrebbe essere stato scritto in qualsiasi data dagli eredi di don Biagio Lomonaco o da qualsiasi altro personaggio, probabilmente negli anni '40 o '50 del 1900 a scopo di vanto o di pubblicità, un cartello esplicativo da affiggere nel salotto ad utilità dei visitatori della casa.

Michelangelo Pucci

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1 Jessie White Mario in “Agostino Bertani e i suoi Tempi – ed. G. Barbera – Firenze 1888,    pag. 455-456
2 Amedeo Fulco – Memorie storiche di Tortora – Rubettino – Soveria Mannelli 2002, pag. 129 e segg.
3 Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi, vol. 11, Epistolario. Vol. 5: 1860 (a cura di
  Massimo De Leonardis), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano,   Roma 1988, p. 229)
4 Franco Apicella in 'Garibaldi. la consegna dell'Italia meridionale a Vittorio Emanuele' in
   
   www.paginedidifesa.it 
  vedi pure: http://www.pisacane.org/documenti/1860/Arrivo%20di%20Garibaldi%20a%20Sala.pdf).
5 R. Finelli - 150 anni dopo - ai quaranta all'ora sulle tracce di Garibaldi - Incontri Editrice - pag. 154 e segg.
6 Agostino Bertani – Ire politiche d’oltre tomba – Tipografia G. Polizzi e CO. – Firenze 1869, pag. 71
7 George Macaulay
Trevelyan– Garibaldi and Making of Italy – ed. Longmans, Green and CO. 1911, pag. 157 
8 G.Celico – Santi e briganti del Mercurion – Editur Calabria 2002, pag. 372
9 E. Orrico – Giuseppe Garibaldi alloggiò a Tortora … - Gazzetta del Sud, 12 febbraio 2011 

Tortora prima e dopo l’unità d’Italia 

* Alla domanda se l’unità d’Italia sia stata un bene o un male per Tortora e, in genere, per il meridione la risposta è un po’ complessa.

Se consideriamo l’assetto socio-economico della seconda parte del 1900 dopo il centenario la risposta è positiva, poiché con la costituzione repubblicana del 1948 si sono avuti: l’affrancamento dallo stato di asservimento della maggioranza della popolazione alla classe dei notabili, l’azzeramento dell’analfabetismo, il lavoro, le assicurazioni sociali, la civilizzazione delle abitazioni, la diffusione dei mezzi di trasporto, la facilità delle comunicazioni, ecc.
Se consideriamo invece il modo con cui si è pervenuti all’unità la risposta è nettamente negativa. Il sud Italia infatti è arrivato all’ unificazione
a) con l’atto di conquista da parte di Garibaldi spalleggiato dai notabili con la conseguente conservazione dello ‘status quo’ sociale di stampo semifeudale, b) con l’invasione da parte dello Stato piemontese seguita da una serie di violenze sulle persone, da depredazioni a danno del territorio e degli istituti meridionali, dall’aggravamento della vessazione fiscale, dall’imposizione della leva militare obbligatoria quinquennale, c) lasciando intatto, per tutto il periodo 1861-1948, lo stato di sopraffazione e spoliazione da parte della classe privilegiata ai danni delle classi subalterne con il perpetuarsi della miseria della classe infima e della povertà della maggioranza della popolazione.
Questo stato si aggravò ulteriormente in seguito alle così dette leggi eversive: la prima del 7 luglio 1866 n. 3066 previde la soppressione degli ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni patrimoniali; la seconda del 15 agosto 1967 n. 3848 dispose la liquidazione dell’asse ecclesiatico del clero secolare. Questi beni furono immessi sul mercato e venduti ai creditori dello Stato in cambio dei titoli del debito pubblico, in pratica a un numero ristretto di privilegiati: nobili, notabili e capitalisti fondiari. I contadini, che costituivano circa il 90% della popolazione meridionale, non solo si trovarono tagliati fuori dalla possibilità di acquisire i beni confiscato agli enti ecclesiastici, ma, in conseguenza delle recinzioni delle nuove proprietà, si videro soppressi gli usi civici: diritti di pascolo, di legnatico, di erbaggio.

 

* La situazione economica e sociale tortorese dopo il 1861, dunque, non solo non registrò alcuna modificazione migliorativa rispetto a quella precedente ma subì un netto peggioramento.
Come in tutto il meridione così pure a Tortora si annoverano le seguenti fasce sociali ed economiche, sia prima, sia dopo l’unità, fatta eccezione della figura del feudatario presente prima e gradualmente scomparsa dopo.
- Il feudatario: vertice della società parassitario ma che usufruiva dei maggiori redditi monetari e in natura. Il suo tenore di vita era molto alto. Normalmente risiedeva a Napoli o nella Terra di origine della sua famiglia nobiliare. Temporaneamente, quando veniva a Tortora per riscuotere i tributi vassallatici, abitava nel ‘Palazzo’, che domina ‘Mballatùrru’ e sbarra l’ingresso all’antico borgo di Julitta o Castello delle Tortore (vedi più avanti ‘Monumenti’).
Si fregiava dell’appellativo di ‘don’ e del titolo di ‘magnifico’.
Egli si giovava dei diritti feudali:
   - delle acque (pedaggio, pesca),
   - di banalità (uso obbligatorio di mulini, frantoi, forni, torchi da vino,
     aie),                                
   - di caccia (esercizio esclusivo anche nelle proprietà private senza
     obbligo di indennizzo dei danni prodotti dal passaggio dei cacciatori),                              
   - di censo (canone in danaro o in natura gravanti sulle terre feudali),
   - di corvée (obbligo di prestazione di lavoro, valutabile anche in dana-   
      ro, per le opere pubbliche del feudo: costruzione e manutenzione di
      vie, ponti, canali, opere di difesa, ecc.),
   - di laudemio (imposta sulla vendita di patrimoni compresi nel feudo),
   - di leyde (imposta sulle mercanzie portate nelle fiere o mercati),
   - di pascolo (imposta sul pascolo nei terreni feudali),
   - di pedaggio (imposta per il passaggio su ponti e strade del feudo),
   - di terrage (diritto di prelievo di parte dei frutti prodotti nel feudo)[1].
 

- I notabili: redditieri: professionisti redditieri: notai, avvocati, farmacisti, medici, clero -   assegnatario di benefici, proprietari di consistenti estensioni di terra coltivabile con bestiame; parassitari con elevati redditi monetari e in natura. Il loro tenore di vita era abbastanza buono. Vivevano con i redditi professionali e/o di proprietà e/dei diritti derivanti dall’uso dei mulini e/o dei frantoi (trappeti) e/o delle aie. Abitavano in case signorili costituite da diverse stanze ai piani superiori, fienile, stalle e porcili al piano terreno, contraddistinte da ingressi importanti con portali litici e stemmi gentilizi. Alcuni possedevano uno o più cavalli, dopo la costruzione della strada carrabile (primi ‘900), anche un calesse. Si fregiavano dell’appellativo ‘don’ e ‘donna’ (dominus, domina).
-Il personale svolgente una funzione al servizio del feudatario o del Comune: fattori, esattori, guardie personali o guardie civiche, impiegati o lavoranti al servizio del Comune; con redditi monetari e marginalmente in natura da lavoro. Il loro tenore di vita era modestamente decoroso. Abitavano in case mediamente di tre vani con stalla e porcili al piano terreno. Molti di essi erano pervenuti a Tortora al seguito dei vari feudatari succedutisi nel tempo nel feudo o al seguito di notabili o delle loro mogli in occasione di matrimoni fra rampolli di famiglie di ‘signori’ di paesi diversi.

- I medi proprietari terrieri coltivatori; produttori con redditi in natura e marginalmente monetari da capitale e da lavoro. Il loro tenore di vita era sufficiente. Abitavano in case di due vani: cucina e camera da letto per tutti, piccola dispensa, soffitta per l’essiccazione delle granaglie e dei legumi, stalla e porcile; disponevano di una bestia da soma (asino o mulo).

- I piccoli proprietari terrieri coltivatori;  produttori con redditi in natura da lavoro al limite della sopravvivenza o insufficienti. Tenore di vita molto basso. Abitavano in case di due vani: cucina e camera da letto per tutti, un porcile nel sottoscala.

- I mezzadri e fittavoli; produttori con redditi in natura da lavoro, insufficienti. Tenore di vita con privazioni anche del necessario. Abitavano in case di un solo vano con focolare e letti di sacconi ripieni di scartocci di granturco.

- I lavoranti fissi: produttori di redditi monetari e in natura insufficienti. Tenore di vita con privazioni anche del necessario; mendicanti occasionali. Abitavano in case di un solo vano con focolare e letti di sacconi imbottiti con scartocci di granturco.

- I lavoranti giornalieri: produttori di redditi monetari e in natura, aleatori e gravemente insufficienti. Abitavano in case tuguri con focolare e letti di sacconi di scartocci imbottiti con scartocci di granturco. Tenore di vita gramo con gravi privazioni; frequentemente mendicanti.

- I pezzenti: parassitari per necessità; non produttori di alcun reddito. Tenore di vita gravemente deficitario con privazioni totali; mendicanti permanenti. Abitavano in tuguri con focolare e letti di sacconi imbottiti con scartocci di scartocci di granturco. Secondo una stima approssimativa, erano circa il 5% della popolazione.

Le ultime cinque fasce costituivano la grande maggioranza della popolazione.

L’accattonaggio era un fenomeno molto diffuso non solo in occasione di ricorrenze soprattutto religiose ma era una pratica quotidiana casa per casa da parte di paesani, anche di vicini della stessa via, che a pranzo e a cena non avevano nulla da offrire ai figli, che si accontentavano di un tozzo di pane o di una manciata di fichi secchi o degli avanzi della tavola degli altri (nella stessa via dei miei ve ne erano cinque (14% dei residenti), che, quotidianamente, or l’uno or l’altro si presentavano alla porta con l’espressione: siano rinfrescate le anime del purgatorio! o di zio Giovanni! o di zio Michele, formula che si ripeteva anche a ringraziamento per il ricevuto).


Dopo il 1861 scompare la figura del feudatario, ma rimangono immutate fino al 1948 tutte le altre fasce con le stesse difficoltà del vivere quotidiano, la stessa povertà diffusa per la stragrande maggioranza della popolazione e la stessa miseria delle due fasce più basse.

In questo secondo periodo esplose il fenomeno migratorio verso le Americhe, soprattutto verso l’America meridionale: verso il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay. I sogni di fortuna dei migranti puntualmente si infrangevano contro una realtà di duri e umilianti lavori e di estremi sacrifici di ogni genere, per lo più non confortati da risultati economici. I più o non rimpatriavano più conducendo nel paese ospitante una vita di povertà in condizioni di cittadini di seconda serie o se ne tornavano a casa più poveri di prima. Solo alcuni, una minoranza, tornavano al paese con un gruzzoletto che permetteva loro di comprare terra da lavorare o di aprire una qualche attività.

 

* La situazione politica dei Tortoresi, come di tutto il meridione, dopo il 1861 registrò un peggioramento: mentre sotto i Borboni lo Stato era assente se non per esigere tasse, sotto i Savoia lo Stato era assente per i servizi ai cittadini ma eccessivamente presente per le tasse, accresciute rispetto al periodo borbonico, e per l’imposizione della leva militare.

A Tortora non sono ricordate violenze da parte delle autorità militari, come in altre località della regione e nelle altre regioni meridionali, anche in occasione della liberazione nel 1863, da parte di un plotone di guardie nazionali, del notabile Francesco Maceri detenuto dai briganti, annidati nei boschi e nelle grotte di Monte Serramale, fuggiti prima dell’arrivo delle guardie.

Nel Regno delle due Sicilie la leva militare non era obbligatoria. Nel Regno d’Italia fu imposto l’obbligo della leva militare. I sudditi, con grande loro malanimo e tormento, si accorsero del passaggio dei poteri dai Borboni ai Savoia per quest’obbligo che sottraeva per 5 anni braccia al lavoro dei campi e alla pastorizia, attività vitali per le famiglie. La gente non capiva il perché del sacrificio della vita o di mutilazioni dei loro figli in guerre che non avvertivano li riguardasse. Ma quello che più irritava la povera gente era la modalità dell’arruolamento militare che spesso si svolgeva con atti di violenza operati dalle autorità militari.

Nei primi decenni dell’Unità, non esisteva nel territorio nazionale un capillare servizio postale (istituito più tardi nel 1890), per cui agli arruolandi non perveniva una cartolina precetto personale. L’arruolamento avveniva per pubblici avvisi in luoghi spesso lontani dai piccoli centri. Per questa modalità gli interessati per lo più non venivano a conoscenza degli avvisi stessi e non rispondevano alla chiamata; venivano a saperlo solo quando si presentavano a casa i carabinieri regi per arrestarli per renitenza alla leva, che comportava la fucilazione, spesso sul posto.


* Emblematici furono i fatti di Latronico, Castelsaraceno e Carbone, paese e casali dell’alta valle del Sinni, in prov. di Potenza, dove il 1 febbraio 1861 un contingente dell’esercito regio al comando di Cialdini rastrella i giovani dall’apparente età di 20-25 anni, li arresta come disertori o renitenti e li fucila sul posto (20 solo a Latronico) senza dar loro il tempo e la possibilità di dimostrare di non essere venuti a conoscenza della chiamata alle armi della leva 1857-1860; (http://hannoassaltatoladiligenza.blogspot.com; F.Molfese su www.wikipedia.org; Fara Misuraca e A.Grasso su http://ilportaledelsud.org; A.Boccia – art. su Eco della Basilicata – gen. 2005; T.Pedio – su http://eleaml.org/sud prigionieri di guerra sud unità italia)).

 

* Significativi furono pure i fatti di Sicilia dove, in applicazione della legge Pica del 15 agosto 1863, il generale Giuseppe Govone impose la dittatura delle autorità militari e introdusse lo stato di emergenza in forza del quale operava massicci rastrellamenti di renitenti e di sospetti con facoltà di fucilare la gente sul posto. I suoi metodi erano torture dei catturati, ritorsioni sulla popolazione inerme, stragi di interi villaggi, distruzione di raccolti per affamare i paesi dove si sospettava la presenza dei resistenti. Per catturare i renitenti interi paesi venivano circondati e privati dell’acqua potabile. I renitenti catturati o i parenti venivano fucilati come esempio. Interi boschi venivano bruciati per distruggere possibili rifugi di chi si dava alla macchia. A un giovane sarto palermitano, Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, vennero inflitte 154 bruciature con ferro rovente da parte degli ufficiali piemontesi della visita di leva perché ritenuto simulatore.

Migliaia furono i morti a Gaeta nel corso del bombardamento (Dalla caduta del regno ai giorni nostri; htt://hannoassaltatoladiligenza.blogspot.com)

Nei primi mesi di applicazione della legge Pica, a Vieste, Venosa, Bauco, Auletta, Gioia del Colle, Sant’Eremo, Pizzali, Pontelandolfo, Casalduni furono giustiziati e uccisi non meno di  mille poveracci.

Un po’ dappertutto nel Meridione vi furono distruzioni ed eccidi: 54 paesi rasi al suolo, villaggi e raccolti bruciati per anni, sterminati bestiame, uomini, anziani, donne, bambini.


* Nel 1868 la repressione in Calabria fu affidata al colonnello Milon, che adottò il metodo della fucilazione senza processo. Pietro Fumel, comandante della guardia nazionale, anch’egli in Calabria terrorizzava, torturava, seviziava, faceva uso di spie prezzolate, fucilava i sospetti, faceva le esecuzioni più crudeli in piazza o sulla pubblica via, faceva infiggere sui pali le teste dei giustiziati (Maria R. Calderoni su http://sottosservazione.wordpress.com).

Questi, per 87 anni, sono stati gli esiti dell'unità. Unità subita da una maggioranza di chi non contava a causa della povertà e dell'ignoranza e accettata, spesso per convenienza, dalla sparuta minoranza dei notabili che attendevano dal cambiamento maggiori vantaggi e maggiori poteri.
Lo stesso Garibaldi, nell'itinerario da Marsala al Volturno, per il successo della sua impresa ricercava il consenso e l'appoggio di questi ultimi, ricorrendo a metodi autoritari, dei quali è prova la cronaca del suo passaggio per Tortora: intrattenendosi con i maggiorenti del paese mentre era ospite dei Melazzi-Lomonaco, venne a sapere dell'assenza per dissenso di don Francesco Marsiglia, personalità di spicco di Tortora, ne ordinò l'arresto e la fucilazione immediata. Lo salvò solo l'intercessione del sac. don Mansueto Perrelli, che lo dichiarò non perfettamente sano di mente.
Al ricordo dei fatti e di fronte ai contesti economici e sociali di cui sopra è difficile sostenere che l'unificazione del sud al resto d'Italia sia stata una 'liberazione'
L'unità divenne realtà cosciente, frutto di libera scelta, nel referendum del 2 giugno 1946 e nelle elezioni del 18 aprile 1948 cui furono convocati tutti i cittadini indipendentemente dal censo, dal grado di istruzione e dal sesso. 

Michelangelo Pucci


 

[1]http://cronologia.leonardo.it/mondo40v.htm

 

Molto ben conservato, scolpito con motivi faunistici e floreali in riquadri geometrici incassati. Nella chiave di volta è scolpita una maschera apotropaica.  E' sormontato da un fastigio recante lo stemma gentilizio.

I segni della storia geologica di Tortora sono visibili nelle pendici della valle della Fiumarella. Nelle ultime ere geologiche il territorio di Tortora è mutato profondamente.
I fattori di questo mutamento sono essenzialmente due: il bradisismo di sollevamento per cause tettoniche e le glaciazioni.

Voluminosa opera di Gioacchino Francesco La Torre e di Fabrizio Mollo, nella quale gli autori fanno un minuzioso e scientifico resoconto degli scavi e delle ricerche archeologiche condotte dai medesimi, con la collaborazione delle Università di Pisa e di Messina, sul colle del Palècastro di Tortora.

Il toponimo Cutùra, che indica una contrada della Marina, sita tra la Nuova SS 18 a NE e la via Panoramica al Porto,

richiama la città anatolica Kotyoora, che si trovava sulle rive del Mar Nero a ridosso del Caucaso.
Negli anni '50 persone anziane riferivano di aver trovato (?) 
in zona tracce di forni per la fusione e di scorie di fusione, adesso non più rilevabili.
Si può supporre, ma non esistono né documenti né risultanze archeologiche che lo provino, che intorno al 1000 a.C. cercatori di minerali di ferro di provenienza anatolica abbiano preso sede in zona per estrarlo dalle terre rosse della Crisosa e del Rosaneto.
E' ragionevole pensare che il gruppo di cercatori abbia dato al luogo dove aveva costruito le capanne di abitazione il nome della loro città di origine: Kotyoora. E' stata tendenza in ogni tempo degli emigranti di dare ai luoghi di emigrazione i nomi delle loro patrie di origine.

Vedi O.Campagna: La Regione Mercuriense ... - Pellegrini 1982 - pag. 233.

Michelangelo Pucci

 

Etimo del toponimo "Blanda"

Finora autorevoli storici locali hanno fatto risalire il toponimo "Blanda" all'etimo latino "ex aere Blando" (dal clima mite). Dopo gli scavi archeologici degli ultimi decenni questa opinione ha cominciato a traballare. E' emerso  che il toponimo esisteva molto prima del periodo della dominazione romana. Sicuramente esisteva già nel periodo della dominazione lucana (IV e III sec. a.C.). Tito Livio riferisce che, nel corso della guerra annibalica, "Blanda" fu espugnata dal console Quinto Fabio Massimo nel 214 a.C. (vedi T. Livio, "Ab  Urbe Condita", libro XXIV, 20). I Lucani parlavano una lingua di derivazione osca, non il latino, di conseguenza l'ipotesi di derivazione del toponimo dall'etimo latino cade e si ripropone la necessità di cercare un altro etimo. Vi ho riflettuto a lungo fino a che mi è pervenuto fra le mani il libro di Paul Faure, "La vita quotidiana  a Creta ai  tempi di Minosse", 2018, Mondadori Libri S.p.A, Milano. In esso, nell'elenco delle 93 citta cretesi di cui parla Omero, si cita una città di nome "Blanda" (oggi Kastelli Malevyzou). Dopo questa scoperta si affaccia l'ipotesi che il toponimo "Blanda" risalga al tempo di Minosse (XV sec. a.C.).Questa ipotesi non sembra campata in aria se si considera che i Minoici navigavano per scopi commerciali per il Mediterraneo dalle coste dell'Anatolia (dove si ritrovavano altri siti denominati "Blanda") in Egitto, dalle coste siro-palestinesi a quelle siciliane e italiche dove si attestavano con insediamenti di tipo commerciale (non politico) (vedi op. citata). Non è da escludere che si siano attestati sul colle che sovrasta l'attuale Poiarelli chiamando l'insediamento "Blanda" come la patria che avevano lasciato a Creta, come è avvenuto spesso nella storia. I
l termine insediamento commerciale esclude l'occupazione del territorio per la costruzione di una colonia  con un ordinamento politico del tipo polis per uno sfruttamento economico anche agricolo del sito. L'ipotesi è rafforzata dalla coincidenza, non certo casuale, che il colle su cui fu costruiita Blanda ancora oggi si chiama Palècastro, come il centro portuale cretese menzionato da Omero, non lontano dalla Blanda cretese, che si chiamava "Palaikastro". Sul Palècastro di Tortora c'era un insediamento commerciale minoico? Solo qualche reperto archeologico potrebbe confermarlo con certezza. Nei primi anni '60 del secolo scorso in un sito non distante dal Palècastro casualmente dei privati scpersero delle tombe a cupola, come si usava a Creta, contenenti oggetti e riproduzioni di animaletti che andarono dispersi venduti in un negozio di Praia a Mare a turisti e residenti. Potevano essere significativi per il nostro scopo?


Ori
gini

Nel VI secolo A.C. gli Enotri si insediarono sul colle del Palestro (o Palècastro) costruendovi una cittadina organizzata politicamente ed economicamente. Non sappiamo come la chiamarono è probabile che conservarono il nome minoico "Blanda".
Gli scavi archeologici ne hanno messo in evidenza le tracce1, sotto di esse è stato trovato un suolo vergine, ciò dimostra che gli Enotri furono sicuramente i primi abitanti del colle.
Maggiori evidenze della loro presenza in zona vengono buona parte delle loro tombe indagate a S.Brancato in un banco si sabbia a poche decine di metri dalla strada provinciale che porta a Tortora; parte del banco di sabbia, che certamente conteneva altre tombe, era stato asportato ad uso edilizio da un escavatore. Esse rivelano una comunità abbastanza numerosa per quei tempi dominata da un gruppo di proprietari abbastanza agiati tanto da possedere grossi vasi fittili per la conservazione delle derrate alimentari, vasellame per uso domestico decorato e in così grande numero da permettersi di arredarne le tombe dei loro cari e contenitori in ceramica importati dalla Grecia e dalle colonie italiote vicine contenenti prodotti voluttuari.

 
Storia
All’inizio del IV secolo A.C. dopo un periodo di spopolamento, arrivarono i Lucani. Occuparono il Palècastro, lo fortificarono con una cinta muraria e costruirono le loro abitazioni sulle rovine di quelle enotrie. Gli scavi archeologici ne hanno messo in luce le tracce sul Palècastro e numerose tombe a cassa realizzate con lastroni di terracotta per delimitazione del perimetro e per copertura. Esse rivelano una società ben organizzata dominata da una classe abbastanza ricca di proprietari terrieri e di qualche mercante. L’arredo in vasellame fittile regge il confronto per bellezza dei decori figurati ed eleganza delle forme con quello greco e magnogreco
In questo periodo il centro sicuramente si chiamava Blanda.
Alla fine del III secolo A.C. i Lucani, alleati di Annibale, furono sconfitti dai Romani e sfrattati dal territorio, Tito Livio annovera Blanda fra le città lucane assediate dalle truppe romane.
Dopo un periodo di spopolamento, i Romani vi costituirono una loro colonia, rinforzando la cinta muraria e costruendo sulla sommità del colle gli edifici sacri, gli edifici pubblici e, attorno, le case private, divise da strade ortogonali. Gli scavi archeologici ne hanno mostrato i ruderi. In epoca augustea il centro fu rivitalizzato da un nuovo gruppo di coloni che, in omaggio a Ottaviano, al nome Blanda aggiunsero l'aggettivo 'Julia'.
L'approvvigianamento idrico per usi domestici era assicurato da cisterne rifornite dall'acqua piovana defluente dai tetti delle case. Quello per uso potabile era assicurato da fontane sorgive a polla (di forma circolare del diametro tra i 120 e i 150 cm) che bulicavano ai piedi del colle delle Crisose, in contrada Pèrgolo a poca distanza dal Mausoleo. Queste fontane non sono più visibili in quanto interrate sotto la superstrada.
La città prosperò dal I secolo A.C. fino al V secolo D.C.
 
Abbandono del Palestro
Dati archeologici attestano che nella prima metà del V secolo il Palestro fu abbandonato dopo che fu sottoposto a sacco e distrutto con molta probabilità dai Vandali in una delle loro scorrerie dal mare; i Blandani si rifugiarono sul pianoro di San Brancato dove ricostruirono l’abitato. Negli stessi anni i Vandali sottoposero a sacco e devastarono numerosi centri della costa tirrenica fra cui Roma (455). Ripresasi stentatatamente, la città quasi sicuramente fu distrutta nuovamente,  o dai Goti nel 546, o dai Longobardi negli ultimi anni intorno al 590. ma la comunità non si disperse e continuò ad occupare il territorio, sia nella zona di S. Brancato, sia nel sistema di ville o masserie sparse nell’area circostante, costituendo un centro abbastanza cospicuo, come dimostrato dalla lettera di Gregorio Magno al vescovo Felice di Acropoli del 592, dalla lapide funeraria con fronte strigliato di Cominia Damianeta, datata dagli esperti al VII sec. d.C. e dagli scavi archeologici che hanno portato alla luce, sull'orlo del pianoro di S. Brancato, i resti di una chiesa frequen-tata dal VII al XII secolo (vedi più avanti: Bizantini e Longobardi).
 
Declino e fine
Lo sparso abitato continuò a chiamarsi Blanda per tutto il periodo bizantino e longobardo, almeno fino al XI secolo, quando il sito fu abbandonato definitivamente.
Le rovine del sito del Palécastro divennero una cava di materiale edilizio in un primo tempo per le nuove costruzioni di Blanda di S.Brancato e successivamente per gli edifici del Castello delle Tortore (si vedano le quattro colonne monolitiche della chiesa S.Pietro Apostolo). La destinazione agricola del sito contribuì notevolmente a spianare completamente il colle. Le pietre meno pregiate, scavate dall’aratro, furono riciclate per la costruzione delle murate a secco di contenimento della terra delle terrazze esterne alle mura del lato ovest. I cocci in materiale fittile, a mano a mano che emergevano dal suolo, furono buttate giù per la ripida scarpata che scivola fino al fiume nel lato sud del colle.
Segue la storia analitica di Blanda attraverso i popoli che si sono succeduti nel sito.

 

Cronologia
 
550 circa a.C.    Gli Enotri sono presenti sul Palecastro e nel territorio circostante
450 circa a.C.          Crollo (distruzione?) dell’abitato e abbandono da parte degli Enotri
350 circa a.C.    Arrivo dei Lucani e loro insediamento sul Palècastro, ricostruzione di Blanda
200 circa a.C.          Cacciata dei Lucani dal territorio, crollo (distruzione?) dell'abitato 
150 circa a.C.          Inizio ripopolamento da parte di una colonia 
                              romana, ricostruzione di Blanda
70   circa a.C.         Crollo (distruzione?) dell’abitato e abbandono 
                              del sito
60-40 circa a.C.       Ricostruzione e rifondazione della colonia 
                              romana con un duunvirato
Epoca augustea:    Deduzione della colonia romana di Blanda Julia, 
                              permane il duunvirato
75 circa d.C.           Crollo parziale (da terremoto?)
75-70 circa d.C.       Ricostruzione e trasformazioni edilizie
150 circa d.C.          Crollo (da terremoto?)
150-160 circa d.C.    Parziale ricostruzione dell’abitato
260-270 circa d.C.    Impianto per la lavorazione dell’argilla
375 d.C.                 Crollo da terremoto seguito da un maremoto
375-380 circa d.C.    Ricostruzione
420-450 circa d.C.    Probabile distruzione da parte dei Vandali o 
                              dei Goti, abbandono del Palecastro
450-500 circa d.C.    Ricostruzione parziale di Blanda nel sito di 
                              S.Brancato sotto la dominazione Bizantina
590 circa d.C.          Arrivo dei Longobardi e dominazione 
                              longobarda, fuga del clero bizantino, 
                              intervento del Papa Gregorio Magno, 
                              creazione di un clero latino.
Secolo IX                Ritorno e secondo dominio bizantino che 
                              si protrae fino all’XI sec.
800 circa d.C. (seconda metà del sec.)   Hanno inizio le incursioni 
                              Saracene.
Prima metà sec.X  Abbandono del sito di S.Brancato, fine di 
                              Blanda.

                              Inizio costruzione abitato di Julitta (attuale 
                             Tortora).

Michelangelo Pucci
 

Prima 'Laura' di monaci greco-bizantini, poi fortificazione bizantina, successivamente castello longobardo e infine feudo normanno, come centro abitato nasce sotto la dominazione longobarda.

Crogiuolo di idee ed iniziative che portano all'unità d'Italia, questo periodo comprende i primi sei decenni del XIX secolo. Ebbe inizio con l’occupazione francese del regno di Napoli e si concluse con la spedizione dei Mille di Garibaldi.

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