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Michelangelo Pucci

Dal latino

Sostituzione

Sul monte Mucrone

         Estate1954. Afine dell’anno scolastico è stata programmata la gita annuale in pullman. Si va al santuario di Oropa nelle prealpi che si ergono alle spalle di Biella.

         Partiamo ai primi albori. All’ora che gli operai vanno al lavoro arriviamo a Biella. Qui, scesi dal pullman per una breve pausa, un incontro inaspettato: mentre mi sgranchisco le gambe, mi si avvicina Alfonsino Perrelli, era lì per lavoro, è lui che ha individuato nel nostro gruppo Cicalese e me. Per me è una sorpresa, tanto più gradita per il fatto che questo è il primo anno che non sono sceso a Tortora per le vacanze. E’ come sentirmi per pochi minuti in Calabria, è come godere della vicinanza dei miei. Non riesco ad essere molto loquace per l’abitudine alle lunghe ore di silenzio e per la mia naturale taciturnità, in compenso sono un buon ascoltatore. L’incontro, purtroppo, è di breve durata. Ci chiamano a raccolta per risalire in pullman.

         Usciti da Biella, la vallata si biforca. Ci inoltriamo nella valle di sinistra e, salendo per13 chilometri, arriviamo nel piazzale del santuario a1180 m. di altitudine. E’ un complesso imponente, consacrato alla Madonna. Esaurite le funzioni, prendiamo i nostri zaini e diamo inizio all’escursione. Saliamo su per un sentiero che taglia a metà costa le pendici del monte Tovo. Superate le sorgenti del ruscello che, dopo essere passato accanto alla chiesa, va ad unirsi al Torrente Cervo poco prima di Biella, svoltiamo a sinistra diretti al monte Mucrone. Il sentiero è sempre più ripido fino a che diventa poco più che una traccia. La cima è già in vista davanti a noi, ma c’è un passaggio un po’ difficile per noi che siamo alla prima esperienza. Il pendio alla nostra sinistra è particolarmente ripido … , non ci sono alberi … , non ci sono arbusti … , solo un’erba di un verde intenso che sembra accentuare la pendenza. Noi inesperti procediamo con cautela, un piede dietro l’altro, inclinati a monte. Ad un tratto ad uno sfugge di mano lo zaino, che rotola giù velocemente. Mi vedo ruzzolare dietro a quello … , mi sento mancare … , mi viene il capogiro e mi assale un senso di panico … , mi fermo e mi piego sulla destra aggrappandomi all’erba. Dopo un po’ riprendo coraggio, si fa per dire! Arrancando più con le mani che con i piedi vado piano piano avanti, evitando di guardare sotto e puntando gli occhi di fronte. Superato il tratto critico arrivo sulla cima rocciosa, là dove altri erano giunti da un pezzo! Il punto più alto è contrassegnato da una croce di ferro: siamo a2335 mdi altezza. Non si vede, purtroppo, nulla … , siamo circondati da una fitta nebbia che sale dalla valle.

 

         Anche a Santa Fede la vita è organizzata come al Rivaio, tra ore di scuola, tempi di studio e momenti di ricreazione. Qui però godiamo di una maggiore autonomia: non c’è la figura del prefetto, negli spostamenti, sia interni sia esterni, non dobbiamo osservare la fila. Nelle passeggiate esterne non andiamo in un unico gruppone diretto alla stessa meta, ma in piccoli gruppi di tre o quattro diretti a mete diverse, sotto un capogruppo, di solito il più anziano.

         Le ricreazioni non dobbiamo trascorrerle obbligatoriamente tutti in uno spazio ma ognuno in uno dei luoghi a ciò destinati: la sala di lettura, le terrazze, il campo in terra battuta antistante l’abbazia.
         Il campo … è un’ampia spianata di forma rettangolare. A est il vialetto di accesso al complesso, a nord un prato più o meno triangolare adiacente la strada carrabile di Cavagnolo, a sud un campo in leggera pendenza, residenza abituale di talpe che lo arano regolarmente con le loro gallerie, a est un altro prato da cui è diviso da due giganteschi ippocastani.

         Gli ippocastani … nostri amici che ci riparano dal sole con la loro grande ombra nelle giornate estive.  Sotto ci sono delle panchine su cui riposiamo tra una partita di pallone e l’altra.

         E’ una serata di fine estate ancora calda. Seduti sulle panchine o attorno in piedi ascoltiamo le esibizioni canore di ………. , studente di teologia, che con squillante voce tenorile canta arie di opere classiche e stornellate, i gorgheggi visitano tutti i campi della musica fino alle canzonette di recente lanciate al festival di San Remo … vibrano nell’aria le note e le parole di “Vola colomba” … . Dal terrazzo più basso ci osserva e ascolta anche padre Ferrari … : passi - “mi sorrideva il sole, il cielo, il mar” - , ma alle parole - “vorrei volar dov’è il mio amor” - la sua faccia diventa scura … , ai versi - “fa che il mio amore torni, che torni presto” - le sue sopracciglia si aggrottano … , ma infine … è proprio il colmo! – “dille che non sarà più sola e mai più la lascerò” – i suoi occhi si socchiudono e diventano taglienti come lame … , al momento non dice nulla. Finiti i canti con il termine della ricreazione, ci ritiriamo nell’aula di studio … , il padre ci aspetta là … , appena seduti, investe tutti e, in particolare, il nostro usignolo con una aspra reprimenda moralistica. All’inizio non me ne spiego la ragione e non capisco! Per me quelle parole non avevano nessun significato. Ma, a pensarci bene, le ali della colomba di Nilla Pizzi portano e le campane di San Giusto lanciano, affidandolo al vento, l’anelito d’amore di un uomo alla sua donna! … Beh! … .

 

La corvèe

          Nell’istituto non c’è personale di servizio, costerebbe troppo. Alle pulizie delle camerate, delle aule, dei corridoi, dei gabinetti e dei cortili dobbiamo provvedere noi alunni a turno nel tempo della ricreazione. Ma più che il risparmio, credo, lo scopo principale di queste occupazioni è educativo: abituarci ad essere autonomi e a dare importanza al lavoro manuale. Noi, è ovvio, non ne siamo proprio felici, ma le accettiamo e alla fine vi ci abituiamo.

Ogni settimana il prefetto nomina fra gli alunni gli incaricati di ogni ambiente. Ogni incaricato stabilisce i turni e i nominativi di coloro che dovranno curare le pulizie del locale, non senza, a volte, le lamentele o proteste degli interessati che si vedono assegnati troppo frequentemente ai servizi meno graditi. Giudice della correttezza delle procedure di assegnazione è il prefetto.

Oggi tocca a me, insieme con altri due: il compagno di classe Cherubini e Ricossa del IV° ginnasio, a pulire i gabinetti.

L’ambiente dei gabinetti si trova all’estremità nord dell’aula di studio. E' composto da un disimpegno e dal vero e proprio locale dei bagni di forma rettangolare: da un lato la fila di una ventina di rubinetti e al lato opposto le dieci porte che danno l’accesso alle latrine con vasi turchi.

E’ lunedì, i vasi sono oltremodo sporchi perché la domenica non si fanno pulizie, sono quasi tutti intasati di feci e carte. Prima riempiamo dei secchi d’acqua che da distanza di sicurezza lanciamo contro l’obiettivo, ma non sempre è sufficiente a liberare i sifoni. Uno schizzo di rimbalzo colpisce in pieno viso Ricossa che non fa una piega, con la sua imperturbabile serenità va a lavarsi il viso ai lavandini vicini e si rimette al lavoro. Dobbiamo allora armeggiare con ventose, scope e molta acqua tra le amenità e le battute spiritose di Cherubini che non ci risparmia quelle più sapide suggerite dalla situazione. Io, come al solito, rido senza parlare e commentare. Raggiunto lo scopo, procediamo con il lavaggio e asciugatura dei pavimenti con gli strofinacci consegnatici. La ricreazione è quasi finita, ci laviamo e rientriamo nell’aula per le altre due ore di scuola.

          Padre Granero , nell’ora di geografia, ci legge, come d’uso, un altro brano del racconto del viaggio di James Cook[1] nei mari del sud sulle coste della Nuova Zelanda.



[1] James Cook (1728-1779), esploratore e scopritore di numerosi arcipelaghi del l’oceano Pacifico.

 

Felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni (Pascoli: L'Aquilone)

          Aveva tredici anni … , non ne rammento neppure il nome!
Febbre alta, ansiosa concitazione del rettore e dei prefetti, visita medica, vano ricovero in ospedale.
Avvisati tempestivamente, i genitori da Roma hanno fatto appena in tempo a trovare il figlio agonizzante. … Morte per meningite fulminante.
          A nulla sono servite le preghiere private e pubbliche, sommesse e solenni. Nella tragedia i padri del Rivaio avrebbero voluto vedere tutti composti nella rassegnazione e nel religioso affidamento nelle mani della divinità … , ma quella madre, buttata su quel corpicino esanime … , bestemmiava Dio che le aveva tolto l’unico figlio. L'imbarazzo dei padri, sgomenti, si palpava! … la morte e il suo mistero erano profanati in ciò che avevano di più sacro! …  sacrilegio! … un vero sacrilegio!
          Passiamo uno per uno accanto alla sua bara, senza riuscire a pregare in quel momento. Una tenue smorfia rivela le terribili sue ultime sofferenze. Il suo viso si confonde con la camicia bianca, sia l’uno,  sia l’altra spiccano nel completo blu che lo veste per l’eternità.
          “Felice te che al vento …". 
            Ma sarà poi vero? [1]


[1] “ … Io pria torrei – servir bifolco per mercede, a cui – scarso e vil cibo difendesse i giorni, - che del mondo defunto aver l’impero. … “ - risponde Achille a Ulisse nell’Averno – Odissea, libro XI, 614-617. Se intendiamo la felicità mera assenza di preoccupazioni, probabilmente Pascoli avrebbe ragione; se invece la intendiamo come soddisfazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni, essa è irrealizzabile in vita ma anche in morte, perché la morte è la cancellazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni; se infine concepiamo la felicità come appagamento dei bisogni e delle aspirazioni che è nel potere dell’uomo ottenere nella situazione in cui si trova, allora la felicità è una possibilità realizzabile solamente restando in vita poiché con la morte tutte le possibilità si azzerano. Ma alla fin fine è meglio essere vivi anche se non felici o non pienamente felici, vivi con tutte le preoccupazioni e le sofferenze che la vita comporta che morti incapaci di gioire e di soffrire. Se una felicità in questa vita è possibile essa consiste nell’operare  rettamente e nell’ambito delle proprie possibilità e nell’accettare l’esistenza così com’è con serenità. Io ancora posso essere felice. Il compagno morto non ha più la possibilità né di essere felice né di essere infelice!

 

 

L’odeon

           Nelle calde serate estive seduti sui gradini della scala, che s’incunea tra i due edifici del Rivaio, come dalle gradinate di un teatro greco, ascoltiamo, da un giradischi posto in basso, brani scelti di musica classica. Ora voliamo sulle ali dorate del “Va! Pensiero!” del “Nabucco” di Verdi, ora fremiamo alle mille invenzioni sonore di Rossini nel preludio del “Barbiere di Siviglia” e ne “La gazza ladra”, ora siamo presi nel turbinio delle note de la “La danza delle ore” di Ponchielli, o ci innalziamo nei cieli più puri con “ La Vergine degli Angeli” de “La forza del Destino” di Verdi, o ci commuoviamo fino alle lacrime alla limpida voce tenorile di Beniamino Gigli che canta “Mamma”. Non finiamo di correre leggeri leggeri dietro le note della “Primavera” di Vivaldi,  che si leva alta e vigorosa la voce de la “Casta Diva” della “Norma” di Bellini. Chiudiamo la serata inseguendo le poderose note dell’organo nella “Fuga” di Bach. 

         Sono serate per me, ma, credo, anche per gli altri, cariche di grande emozione che mi accompagnerà negli anni avvenire all’ascolto della buona musica. 

Vorrei tanto che questa passione fosse confortata dalle capacità di cantore e di suonatore, ma sono stonato e solamente un cattivo strimpellatore privo del senso del ritmo ed anche della manualità necessaria per padroneggiare la tastiera dell’armonium l’unico strumento a nostra disposizione. Io preferisco quello dell’aula della classe quarta: ha dei registri che gli conferiscono una sonorità che mi tocca, ma riesco solo a farlo gemere lamentevolmente sotto le mie dita.

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