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Michelangelo Pucci

Monte S.Egidio

          Siamo nel mese di settembre del 1950. Siamo rientrati dalle vacanze da 25 giorni. Prima di cominciare il regolare corso delle lezioni viene programmata la gita annuale sul Monte Sant'Egidio. E’ una montagnola di1057 metri sul livello del mare sita a sud-est di Castiglion Fiorentino e a nord-est di Cortona. Partiamo di buon mattino a piedi per coprire un percorso di una decina di chilometri. Ai più robusti della IV e V classe il compito di portare a spalla la marmitta, il pentolame, i piatti di carta, le posate e le cibarie crude.

Per la prima metà del tragitto seguiamo una stradina sterrata fino a Ristonghia, piccolo nucleo di case a circa500 metridi altezza, la seconda metà è un sentiero che si inerpica tra arbusti e radi alberi.

Per ingannare la stanchezza delle gambe, che si fa sentire a mano a mano che saliamo, ci teniamo su con ‘la montanara’, ‘la pastorela’, ‘la  tradotta’, ‘la canzone del Piave’ e altre del repertorio.

Giunti in cima respiriamo a pieni polmoni. Dopo alcuni minuti di riposo, diamo inizio all’esplorazione nei dintorni anche allo scopo di procurare ai cuochi sterpaglie e legnetti secchi per cuocere la pasta e la carne. Il lato sud della cima è incorniciato da un boschetto di larici. A sud ovest si intravedono in basso i tetti di Cortona. Ad ovest ammiriamo in tutta la sua estensionela Valdi Chiana. Ad est il territorio si estende ondulato tra valli e alture, tra le quali i monti Castel Giudeo, Ginozzo e della Croce, un po’ meno elevati del punto in cui siamo. A nord est in una valle, che a tratti si allarga e a tratti si restringe, scorre il torrente Nestore, affluente del Tevere. La radura adiacente il boschetto è coperta di lamponi, ne mangiamo e ne raccogliamo in abbondanza anche per portarne a casa. E’ la prima volta che vedo lamponi! Mi ricordano le more dei rovi che fanno da siepe ai campi della Marina di Tortora, delle quali ero solito fare delle scorpacciate.

         Il pranzo è servito caldo e fumante. Ci sparpagliamo per la radura, ciascuno alla ricerca di un sedile di fortuna. Chi trova un sasso, chi un tronco, chi uno spuntone di roccia, chi, infine, si siede per terra sull’erba. Anche se bisogna evitare di frequentare sempre gli stessi compagni, io prendo posto nelle vicinanze di Reale. E’ un compagno di classe, laziale, capelli neri pettinati di traverso sulla fronte, buono, quanto è alto, tanto è timido, per questo oggetto dei miei frizzi e scherzi dai quali si schermisce lanciando dei gridolini come un bambino.

         Il ritorno è accompagnato dai soliti canti, ma le voci sono più stanche come le gambe e a sera non abbiamo bisogno di contare le pecore per addormentarci profondamente.

 

La vendemmia

            E’ giovedì, secondo giorno settimanale di passeggiata. E’ un bel pomeriggio autunnale. Ci troviamo a percorrere una carrabile sterrata in direzione della contrada ‘ La Nave’. Il sole scotta ancora, gli andiamo incontro e ci acceca.  

Camminiamo a gruppi, vociando allegramente. Alle nostre spalle il monte Corneta, davanti a noi ma in lontananza le dolci colline di Foiano della Chiana. Oggi siamo particolarmente contenti: siamo stati invitati ad una vendemmia.  

Qui nella Val di Chiana la vite viene fatta arrampicare sui pioppi piantati ai margini dei canali di scolo, tracciati a mo’ di rete, che disegna a grandi rettangoli la piana. Si dice che la Val di Chiana appartenga a due grandi latifondisti. I latifondi, a loro volta, sono divisi in grandi unità produttive di qualche ettaro ciascuna. Ogni unità è data in colonìa ad una famiglia di contadini che vivono in grandi cascinali affiancati da stalle dove vengono allevati grandi bovini dalle lunghe corna: i buoi destinati a trainare l’aratro, le mucche riservate alla produzione di vitelli e di latte. La terra è molto fertile: produce in prevalenza grano e mais. Quello che colpisce particolarmente me, abituato alla campagna tortorese fatta di piccoli fondi in cui gli alberi da frutta contendono lo spazio alle altre coltivazioni, è la grande estensione di ogni appezzamento in cui ogni rettangolo è equivalente all’estensione di Castrocucco. Mentre da noi i contadini conducono un vita magra, qui stanno bene e godono di un certo benessere, sono tutti comunisti dichiarati ma credenti, direi pure devoti. Questo spiega il loro invito alla vendemmia per noi.  

Arriviamo in un grande spiazzo: da un lato il cascinale con le stalle, dall’altro lato una fila di pagliai, al centro un grande tino sormontato da una capiente pigiatrice. Un uomo gira la manovella, delle donne svuotano nella tramoggia le corbe ricolme di grappoli, scaricate dai carri che provengono dai campi. L’odore del mosto appena ricopre l’acre olezzo che proviene dalle stalle. A parte ci sono due corbe traboccanti di grossi grappoli di uva bianca e di uva nera. Sono per noi. Ne prendiamo e mangiamo, dapprima in silenzio, poi sempre più allegri e scherzosi. Finiamo per scagliarci chicchi l’un l’altro. I contadini ci guardano felici e sorridenti. Il cortile risuona dei gridolini gioiosi di tutti i miei compagni, sopra di tutti i ‘babbino, babbino!’ di Santini, invocazione con la quale reagisce nei momenti di paura ma anche agli scherzi. La madre è morta alla sua nascita, lo ha allevato il padre. 

Ringraziata la generosità di quelle buone persone, ritorniamo al Rivaio.

 

 

Cozzano

            E’ spesso meta delle nostre passeggiate. Il posto, a tre-quattro chilometri a nord di Castiglion Fiorentino, ha un incanto particolare per la presenza di boschetti e di un ruscello che gorgoglia allegro tra i sassi e la vegetazione. Di qua c’è qualche casetta di contadini, di là una bella chiesetta che occhieggia tra i rami delle querce.

         Cresciuto quasi nel greto del Noce, abituato a passare il tempo nel periodo estivo trastullandomi nei giochi di canalizzazioni e cascatelle e diguazzando coi piedi nell’acqua, non mi pare vero di trovarmi anche qui sulle rive di un corso d’acqua.

         Mentre gli altri si sfrenano a gettare sassi nelle conche divertendosi alle grida di chi viene colpito dagli schizzi, mi diverto anche qui, in solitario, con le mani nell’acqua a creare deviazioni e piccoli corsi artificiali a diversa pendenza per osservare l’effetto erosivo della corrente nelle anse. E’ qui che nel mio immaginario ambiento, chissà perché, la favola del lupo e dell’agnello. Per me è il paradiso terrestre! Peccato che il tempo passa rapido ed in breve bisogna lasciare tutto e rientrare al Rivaio!.

 

Il vulcano

             E’ martedì, primo giorno settimanale di passeggiata. Ci incamminiamo lungo la via Cassia nella direzione di Arezzo. Dopo un primo tratto in fila per due, arriva l’ordine di ‘rompete le righe!’ e continuiamo in piccoli gruppetti lungo il margine destro della strada. Dopo circa un chilometro svoltiamo a destra per una stradina di campagna.

Ci accompagna un sole primaverile che va e viene dietro le nuvole. Chi, di nascosto, caccia le lucertole, chi con bastoni di fortuna, raccolti via facendo, batte i cespugli, chi caracolla avanti e dietro padre Granero che ci accompagna e che intrattiene il gruppo a lui più vicino con racconti sulla sua vita di studente. Dopo circa mezz’ora arriviamo ad una collinetta boscosa detta ‘il vulcano’ forse per la sua forma conica. I suoi declivi sono dolci e coperti da cespugli di piante varie e da radi alberi di pino. Nella piccola radura sulla cima organizziamo il gioco.

Ci dividiamo nelle due squadre dei soliti greci e troiani. Si tratta di una guerra finta in cui i componenti di ogni squadra, dopo aver preso posizione in zone opposte della collinetta, avanzano in direzione dei ‘nemici’ nel tentativo di conquistarne il territorio. Nell’avanzata ognuno procede nascosto fra i cespugli per non farsi vedere dagli avversari. Chi si espone ed è visto viene chiamato per nome, fatto in tal modo prigioniero, deve uscire dal gioco e ritirarsi nella radura. Vince la squadra che, eliminando tutti i ‘nemici’, ne conquista il territorio. Padre Granero è sempre pronto con bonarietà a dirimere il frequente contenzioso tra i contendenti. - “Ti ho visto!” – “No, non mi hai visto!” - . Mentre le avanguardie avanzano, alcuni della retroguardia si attardano fra i cespugli in attività di esplorazione autonoma del bosco. Vanno a costituire i ‘dispersi’ che non fanno tornare i conti nella numerazione dei prigionieri e lasciano incerto l’esito della ‘guerra’. - Cherubini … ! Belli … ! … Cherubiniii … ! Belliii … ! – Finalmente spuntano da campi opposti. Sono gli ultimi ‘dispersi’ … . Il primo guadagna la radura saltellando … , si era attardato dietro delle coccinelle di cui stringeva in mano un esemplare. Il secondo, un sognatore, si era fermato a studiare dei fiori di biancospino e raccolto una violacciocca.

Ora che siamo tutti possiamo tornare. Ci attende, nelle due ore di studio, l’ira di Achille per la perdita della sua bella Briseide!

 

          Ottobre 1948. Nel primo pomeriggio, in comitiva, lasciamo Via Cernaia[1] diretti alla stazione Termini. Viaggiamo tutti insieme in un vagone dai sedili di legno. Resto tutto il tempo con il naso incollato al vetro del finestrino. Mi piace osservare il paesaggio: scorrono davanti ai miei occhi il fiume Tevere che si torce in numerose anse, le colline a declivio dolce e verdi di filari di vite così diverse dalle nostre brulle e pietrose, le pianure coltivate a granoturco, il lago Trasimeno, la Val di Chiana disegnata in ampi rettangoli delimitati da filari di pioppo e da ampi e diritti canali di prosciugamento. Scendiamo a Castiglion Fiorentino[2]. Ognuno trascinando la propria valigia, percorriamo faticosamente il tratto che ci separa dalla nostra meta. Al cancello del Rivaio[3]siamo accolti dal volto aperto, gioviale e scherzoso di Padre Granero che ci accompagna in camerata per una rinfrescata e per la sistemazione dei letti ognuno con le lenzuola e le coperte portate nel proprio bagaglio. A cose fatte scendiamo per la cena. Il refettorio è un ampio stanzone con la volta a botte dipinta, come le pareti, in colore beige.

Il pane bianco sulla tavola è veramente invitante. Ancora non lo si può toccare: la preghiera di ringraziamento del pasto non è terminata! All’ “amen” ci sediamo, ma ancora nessuno allunga la mano verso il cesto per non sembrare allupato! Ma la fame c’è, eccome! Timidamente, dopo alcuni secondi di esitazione, con movimento lento stendo la mano e prendo una bella fetta assaporandola con gli occhi. Al primo morso la masticazione si arresta con disgusto! … Ma che è? … Questo non è pane!

Guardo in faccia i dirimpettai e leggo nei loro occhi la stessa delusione! Sono laziali.

Più in là, altri continuano a mangiare con appetito! Sono toscani.

Non possiamo parlare! Durante i pasti vige il silenzio. Risuona nell’ampio refettorio, dal podio collocato tra la tavola dei professori e le tavolate degli alunni, la sola voce del lettore di turno: – Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo … costretti dalla fame … picchieremo e chiameremo e pregheremo (il portinaio) per l’amor di Dio con gran pianto, che ci apra, e quelli più scandalizzato dirà: “costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come son degni”, e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involveracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone; se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, … o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia. –[4]

Incasso il messaggio. Ingoio il boccone e la delusione e continuo la cena a base di minestra. Osservo i più anziani che spezzettano il pane nel brodo della minestra; li imito … così il sapore è più accettabile.

Per l’eccezionalità dell’evento: l’arrivo di noi nuovi, il padre superiore dà il “Deo gratias”, parola magica che apre la conversazione.

L’effetto è un boato, non per l’urlo dei singoli, ma per la somma di settantacinque voci, che anche in tono normale, esplodono tutte insieme. Noi nuovi arrivati siamo bombardati dalle domande dei più anziani che vogliono sapere i nostri nomi, da dove veniamo … - ah! Dalla  Calabria! – la loro voce si mozza, mentre i loro occhi ci si fissano addosso nella meraviglia che siamo degli esseri umani … come gli altri ragazzi!

Esaudite le loro curiosità, chiediamo del pane … - è senza sale! così si usa in Toscana!

“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui … “ [5].

Per Dante è una delle pene connesse all’esilio. Per me sarà un sacrificio derivante da una scelta più o meno indotta.



[1]Via di Roma, poco distante dalla stazione Termini, dove ha sede il Superiore Provinciale dei padri Maristi.

[2]Comune in provincia di Arezzo ai margini orientali della Val di Chiana.

[3]Nome della contrada di Castiglion Fiorentino dove sorge il santuario della Madonna omonima e della scuola dei Maristi, congregazione religiosa votata al culto di Maria.

[4]Da “I fioretti di S. Francesco”

[5]Dante Alighieri: “La divina Commedia" – Paradiso, Canto XVII, 58

 

Il modello monarchico, con il potere assoluto di una sola persona, si afferma in regime di economia agricola e artigianale, che richiede una vita con residenza stabile in un territorio. La stabilità favorisce la costruzione di abitazioni durevoli riunite in conglomerati urbani, nei quali si perviene a una maggiore articolazione dei ruoli sociali e ad una distinzione in classi, in risposta ai molteplici bisogni che emergono in una situazione di aggregazione molto numerosa. Il potere monarchico si presenta in maniera molto frammentata con un re per ogni città. Successivamente le lotte tra le città portano in un primo tempo al predominio di una sull'altra, poi gradualmente al predominio di una su un numero sempre più grande di altre fino a costituire regni che dominano sul territorio occupato da un popolo e a fondare imperi che soggiogano più popoli.  Il monarca ha, di solito, carattere politico religioso e militare. I rapporti sociali sono regolati da leggi decretate dal monarca stesso. La difesa è affidata ad un esercito che svolge anche le funzioni di polizia interna. Le attività economiche sono controllate dal monarca, direttamente nei regni di piccola estensione come nella Grecia preclassica e indirettamente nel caso di un territorio molto vasto come nei grandi regni e negli imperi come in Egitto, in Persia, nell'area mesopotamica, ecc.  I consociati sono sudditi e servi del monarca. La loro vita, i loro beni, la loro condizione dipendono dal suo arbitrio. In questo modello vige tendenzialmente il matrimonio monogamico.

Michelangelo Pucci

 

 

 

Il modello patriarcale è un tipo di associazione culturale più evoluto della tribù; risale all' VIII-VII secolo a.C. nella regione mesopotamica e nelle aree attigue. Mentre l'economia della tribù si basa sulla semplice raccolta dei prodotti, l'economia del gruppo patriarcale si fonda prevalentemente sulla produzione delle risorse attraverso la pastorizia. Il gruppo, non più branco, è più coeso ed è costituito da una famiglia allargata, di solito nomade per l'esaurimento dei pascoli e conseguente spostamento in altri siti per lo sfruttamento successivo di altri pascoli, il cui capo esercita un potere carismatico derivante dal fatto che contemporaneamente è anche il padre padrone del gruppo. Pur essendo tendenzialmente poligamico, egli accetta che i figli e le figlie si creino proprie famiglie che ammette nella consociazione. Fanno parte della consociazione anche schiavi e schiave con le incombenze più varie. La difesa del gruppo è affidata ai componenti maschi, liberi e servi, che, nel momento dell’emergenza, si armano e combattono. Il capo, anche indebolito e vecchio, non solo non è scacciato dal gruppo, come avveniva nel branco, ma continua a governare rispettato e venerato da tutti i componenti del gruppo. Esempi tipici di questo modello sono le famiglie dei patriarchi biblici.
 
Michelangelo Pucci

 

 

 

Nel modello primitivo si distinguono due fasi: quella del branco e quella tribale.
il branco è un'aggregazione naturale ereditato dagli stadi precedenti dell’evoluzione. Fondato sull’economia della raccolta dei frutti della foresta e dei semi della savana, era finalizzato soprattutto alla riproduzione. Per l’alimentazione ogni membro del branco doveva provvedere a sé stesso e anche ai propri piccoli se femmina. Il capo branco, di solito il maschio più forte, aveva il privilegio dell’accoppiamento con tutte le femmine del gruppo e l’onere della difesa del territorio dagli estranei. Del branco facevano parte, così come avviene tuttora nella maggior parte dei mammiferi più evoluti, il capo branco, tutte le femmine di ogni età, i giovani maschi non ancora maturi sessualmente. I maschi nati nel branco, raggiunta la maturità sessuale, ne venivano cacciati dal capo, che a sua volta ne veniva cacciato se risultava perdente in un confronto diretto con un altro pretendente.
La tribù è una consociazione culturale. Basata sull'economia della raccolta dei frutti e dei semi e della caccia alla selvaggina è finalizzata alla soddisfazione di altri bisogni oltre quello della riproduzione e dell'alimentazione, quali quello di una più efficace difesa, della trasmissione delle tecniche di produzione degli utensili e delle armi, della trasmissione delle tradizioni orali sugli antenati, sulla religione, sulla cura dei malati affidata allo stregone, sulle regole di convivenza  il cui rispetto è affidato al capotribù. In questa forma di consociazione gli anziani non sono abbandonati, anzi vengono rispettati e tenuti in molta considerazione e sono consultati come depositari della saggezza per averne consigli. La forma tribale è sopravvissuta fino a pochi decenni fa nelle foreste del Borneo e dell'Amazzonia.

Michelangelo Pucci

 

 

 

L’uomo è un ‘animale’ sociale, già lo riconosceva tanti secoli fa Aristotele (384-322 a. C.).

La società, genericamente intesa come semplice associazione naturale, non è nata con l’uomo, ma è stata ereditata dai precedenti stadi evolutivi come risposta alla soddisfazione dei bisogni fondamentali della vita: la riproduzione, la difesa, l’alimentazione: si considerino ad esempio i formicai, gli sciami delle api, i banchi di pesci, gli stormi degli uccelli, i branchi di varie specie di mammiferi, da ritenersi vere e proprie consociazioni sociali con differenziazioni dei ruoli.
Come gli animali anche gli esseri umani, fin dai primi stadi della loro evoluzione, sono vissuti per milioni di anni consociati in gruppi familiari e tribali prima di giungere, in tempi più recenti, a forme associative via via più evolute a partire, nell'area mesopotamica, dall'ottavo-settimo millennio a.C. fino a oggi.

Già per la riproduzione è necessaria l’intesa fra due individui: maschio e femmina. L’alimentazione della prole richiede la loro collaborazione e associazione. La difesa sollecita la cooperazione di molti.

La società, specificamente intesa come aggregazione culturale, è un prodotto umano come risposta ai succitati bisogni fondamentali culturalizzati e a tutti gli altri bisogni propri del grado di civiltà via via raggiunto. Per la soddisfazione dei bisogni culturali occorre un’organizzazione stabile e complessa con una molteplicità ruoli.

                                                                                                      Michelangelo Pucci

 

 

La chjàzza

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