Michelangelo Pucci

Michelangelo Pucci

Cristianesimo

Il Cristianesimo, sviluppo di una delle sette ebraiche del II-I sec. a.C., prese vita dagli insegnamenti innovativi e dagli esempi di virtù di Gesù di Nazareth vissuto in Palestina al tempo degli imperatori romani Augusto e Tiberio. Si presentò essenzialmente come una Religione, ma ebbe anche dei notevoli risvolti nel pensiero filosofico e nei campi morale, sociale, politico ed economico. I vari concetti e precetti furono espressi dal fondatore in maniera episodica ed asistematica. Fu costituito in dottrina sistematica nei secoli successivi ad opera prima di tutti di Paolo di Tarso, poi dalla Scuola Alessandrina e successivamente dai vari concili episcopali. Dopo una prima fase eroica estesa fino agli inizi del IV sec., da Costantino in poi, ebbe inizio un periodo, fecondo di pensiero, di diffusione in Europa soprattutto ad opera dei monaci cenobiti. Con l'affermarsi del feudalesimo cominciò la decadenza con la sempre più diffusa ingerenza dei feudatari nella vita, nell'organizzazione e nella direzione della Chiesa. Per questa intromissione spesso si trovarono a dirigere   parrocchie, monasteri, sedi episcopali e perfino a volte il papato dei personaggi mossi da tutt'altri interessi che da quelli religiosi ed evangelici e che conducevano un tenore di vita mondano.

Michelangelo Pucci

Mytos e logos

 

muϑοϛ  

muϑοϛ

Il Mytos e Lògos 

In greco mytos designa un'espressione verbale inizialmente non in contrasto con logos.
Solo nel periodo tra l' VIII e il IV sec. A.C. i due termini si vanno differenziando in conseguenza dell'introduzione della scrittura e della maturazione della ricerca filosofica-scientifica-storica.

Dal punto di vista di chi formula l'espressione:

- una prima linea di demarcazione è rappresentata dalla scrittura per cui mytos = tradizione orale, logos = letteratura scritta. Questa demarcazione va però considerata non nel periodo storico, nel quale anche i mytoi sono scritti, ma nel momento genetico delle due espressioni:
il mytos  nasce e si sviluppa nel periodo in cui non esisteva la scrittura ed è destinato ad essere trasmesso oralmente;
il logos si sviluppa successivamente all'introduzione della scrittura, nasce come espressione scritta ed è destinato ad essere trasmesso per iscritto. 

- Una seconda linea di demarcazione è rappresentata dalla forma:
è mytos l'espressione in forma poetica,
è logos quella in forma prosaica.

- la terza linea di demarcazione è il modo del linguaggio:
è mytos l'espressione che usa un linguaggio simbolico e per immagini concrete;
è logos l'espressione che usa un linguaggio astratto.

- la quarta linea di demarcazione è la strutturazione del discorso:
il mytos procede per accostamento di immagini,
il logos procede attraverso una serie serrata di argomentazioni logiche.

Dal punto di vista del destinatario che riceve il messaggio:

- la quinta linea di demarcazione è la fascinazione:
è mytos l'espressione destinata ad essere ascoltata e quindi deve risultare piacevole, tale da esercitare una seduzione per tenere l'uditorio sotto l'incantesimo;
è logos l'espressione destinata ad essere letta che deve risultare utile per l'insegnamento che contiene.

- la sesta linea di demarcazione è la fascinosità del contenuto:
il mytos fa leva sul drammatico, sul meraviglioso, sul miracoloso per esercitare un'azione mimetica e suscitare una partecipazione emotiva,
il logos invece fa leva sull'argomentazione dei fatti.

- La settima linea di demarcazione è l'effetto destinato ad ottenere sul destinatario del messaggio:
il mytos è l'espressione che si indirizza alla parte irrazionale dell'uditore ed è diretta a suscitarne l'emotività;
è logos l'espressione che si indirizza alla parte razionale dell'ascoltatore ed è diretta a stimolarne la riflessione.

- L'ottava linea di demarcazione è data dall'uso privato o pubblico della parola:
nel mytos la parola è privilegio esclusivo di chi ne possiede il dono,
nel logos invece la parola appartiene nella stessa misura a tutti i membri della comunità, in quanto scritto il logos è portato in mezzo al pubblico, è l'espressione del gioco politico di una città democratica.

Michelangelo Pucci

Pàvulu, nu sfatighéatu! …, nu gguadàgna e la mugljéri nun téni ssòldi pi fféa’ la spìsa.
Nu jùornu dìcid’ànna mugljéri:
- Rusiné, gòji avéra vòglja di nu piàttu di fusìddi cunzòati cu lu sùcu di zazìcchju!
La mugljéri ri rispònni:
- Lu zazìcchju tùva! Si nun fatìgasi e nu gguadàgnasi nun putìemu accattéa’ màngu la farìna!
Pàvulu nun po’ rispònni e sìnni jìessidi.
Passénnu sùtta la chéasa di Giséppu lu mastidàsciu ànna Casalavécchja, vìdi Marijànna  ànna finésta, ra salùta e dìci:
- Stanòtti m’éggiu nzunnòatu la bon’anima di zu Gàngiulu chi mmangiàva nu piàttu di fusìddi cu nu zazicchjòttu da sùpa - 
Marijànna pénzad’ànnu pòatri ..., vò stòa’ ‘m baravìsu, chi, ghèa’ bisùognu di dimbrìscu, cu ru po’ ssapì, a quiràtu mùnnu. 
- Tòrna stasìra – ri dìci.
Sùbbitu pìglja la tàvula, mbàsta la farìna, sténni la pàsta e, cu lu jàcculu sùtta li pàrmi di li mèani , arròta li fusìddi a gùn’a
gùnu. Mìttid’a fféa’ lu sùcu e ci mìtti dajìnda trùozzi di zazìcchju. L’addùru si sìendi pi ttùttu lu vicinànzu.
Prima di sìra mìtti la cassaròla sùpa lu fùocu e, quànnu vùddi, ci jétta li fusìddi. Nun èrani angòra cùotti e Pàvulu s’apprisénda,
nun s’avéd’allundanéatu. Sàglji pùru Giséppu da la putìja. Pàvulu màngiad’a ssàzijitéa’: prìma li fusìddi e puòji lu trùozzu di
zazìcchju. Nun avié mangiéat’accùssì chi nun ni sapiè li tìembi…, dd’ùocchji ri jìessini dafòra …,
- Sìja dimbrisc’chéata la bon’àrma di zù Gàngiulu! – murmùrìja pi ringraziaméndu.
A nnòtti, dòppu nu ggìru jìnda la candìna, Pàvulu tòrnad’ànna chéasa …
- Rusiné …, ghéggiu mangéatu cérti fusìddi chi nun ti dìcu! – dìcid’ànna mugljéri.
- Addùvi r’éji mangiéati? – addummànna Rusinédda.
- M’è mmitéatu Giséppu lu mastidàsciu – rispònni.
E la mugljéri:
- Ah disgrazzijéatu! ... Pùr’a quìru cristijéanu ghé jùtu a nzurtòa’! ... Ah chi scruccùni! … Tu ti jinghìesi la vréndi e gghìju spandichijàva di féami! –
Pìglja la scòpa e ru tunghitìjadi ‘n chéapu.

 

Canzoni

Questa è una raccolta di canti e filastrocche in uso a Tortora messami a disposizione da Maria Teresa Aurelio. Molti di essi sono comuni ad ambiti più o meno ampi a livello territoriale o regionale o interregionale. Cantati in dialetto tortorese con qualche piccola concessione fonetica all'uso di un dialetto comune all'area nord della Calabria.
Nell'accoglierli mi sono limitato solo a trascriverli in dialetto secondo le regole della nostra fonetica.
Esistono per la verità altre due diverse raccolte di altri canti dialettali tortoresi: una pubblicata dai fratelli Cozza Rosetta e Michele, l'altra di Annina Maceri pubblicata a cura della Scuola Elementare di via Falconara alla quale ho contribuito con la trascrizione in dialetto nel rispetto delle regole della fonetica tortorese.

Fatti scelti

Questa piccola antologia di brevi racconti è tratta dal libro 'Fàtti chi si cùndani' in cui ho raccolto scenette più o meno comiche raccontate attorno al focolare per passare il tempo nelle lunghe serate invernali assieme a parenti e vicini soli, che venivano a socializzare presso le famiglie più numerose, dando anche una mano nei lavori di spoglio e sgranatura del granturco o di sbaccellatura dei fagioli.

Questa piccola raccolta di detti è un florilegio tratto da una raccolta molto più estesa, da me pubblicata nel libro 'Il colore delle parole'. Alcuni, nel significato, trovano riscontro nei dialetti di altri paesi compresi in aree più o meno estese, altri sono propri del nostro idioma.
Si tratta di espressioni proverbiali che si prestano ad un commento a volte esplicativo, altre volte semiserio.

Questo florilegio di vocaboli non è il più rappresentativo del vocabolario tortorese, ma certamente ne dà un'idea. Si tratta di lemmi che si prestano ad un commento, a volte serio, altre volte tra il serio e il faceto.  

Annotando l'etimologia dei vocaboli tortoresi si rileva che la base del dizionario tortorese è la lingua latina, conseguenza della lunga permanenza della civiltà romana nel nostro territorio, a partire dal 200 a.C. fino al VII sec. d.C. . Ma anche dopo questo termine la latinità continuò qui a perdurare grazie alla presenza forte della Chiesa erede naturale dell'impero romano e alla derivazione etnica della popolazione degli abitanti di Blanda latina.
Successivamente si sono depositati su questa base termini provenienti dalle lingue dei vari dominatori di turno o da piccole minoranze esterne innestate nel contesto sociale di Tortora per motivi che via via sanno esposti.
Comunque questi apporti sono stati molto limitati.

Per l'Italia meridionale il XIX secolo fu un periodo denso di avvenimenti. Anche il nostro territorio, comprensivo del Cilento, della valle del fiume Noce, del paese e delle montagne di Tortora, dell'altopiano di Galdo, della valle del fiume Lao e della piana di Scalea, fu teatro di lotte e fatti di rilievo. Il secolo di apri con l'invasione dell'esercito napoleonico e la contrapposta resistenza dei locali che comportò violenze barbare da una parte e dall'altra. Successivamente notevoli furono la rivolta del Cilento, la vicenda di Pisacane, il passaggio di Garibaldi, l'accorpamento al regno di Piemonte e Sardegna e la realizzazione dell'unità italiana.

La cucina tortorese e le sue ricette sono quelle tipiche della tavola contadina, confezionate con i prodotti dei campi, degli orti e degli animali d'allevamento. Fra i prodotti dei campi emergevano l'orzo, il farro, il grano, il granturco, l'olio d'oliva. Fra gli ortaggi il posto d'onore era occupato dai legumi, seguivano i pomodori, i peperoni, le melenzane, le verdure, le cucurbitacee. Fra gli animali il primo posto toccava al maiale allevato da tutte le famiglie del paese, della marina e delle montagne, tranne da quelle più indigenti; in secondo luogo in montagna venivano gli ovini e come derivato il formaggio pecorino e caprino.

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