Da un po’ di giorni ho il mal di denti. L’ultimo molare a destra dell’arcata inferiore è talmente cariato che in cima vi si è aperto un cratere. L’incaricato infermiere vi calca un prodotto, a suo dire, di sicuro effetto analgesico.
La mattina successiva la parte si gonfia e compare la febbre … , mi ricoverano in infermeria. Nel pomeriggio ho la temperatura alta, la parte si gonfia e la mandibola si blocca.
Il rettore si preoccupa … , tutto imbambolato mi caricano nella cabina del camioncino e mi trasportano a Torino nell’ospedale delle Molinette.
Mi sistemano in una corsia con otto letti, chiusi da tre tendine scorrevoli. Io le tengo semiaperte, in questa situazione il chiuso mi dà fastidio, ho paura che nessuno si accorga di me, inoltre, proprio perché non posso parlare, sento il bisogno di compagnia! Per mia fortuna più in là è ricoverato un altro giovane, di un paio di anni più anziano di me. E’ uno studente del seminario torinese, molto socievole e scherzoso, che mi risolleva un po’ l’animo. Io gli rispondo a gesti. A sera passa una suorina con il conforto della sua giovialità e di una bibita colorata per rinfrescarci.
L’indomani mattina passa la visita dei dottori. Mi prescrivono delle iniezioni di antibiotici. Grazie a queste la temperatura corporea cala, ma la faccia resta gonfia e la mandibola serrata. Nei giorni successivi mi sento decisamente meglio, posso lasciare il letto di tanto in tanto e passeggiare con il compagno di corsia. La mattina del quarto giorno vengono a prendermi, mi portano in sala operatoria, mi mettono un attrezzo tra i denti, una specie di cric, con il quale mi aprono la bocca, un taglio all’ascesso e la bocca è inondata da un liquido salato e maleodorante. Nei due giorni successivi comincio ad aprire e chiudere la bocca autonomamente. Dopo sette giorni di ricovero il camioncino di Santa Fede mi riporta a casa.
Dopo qualche giorno mi accompagnano dal dentista. Il molare già traballava. Bastano pochi secondi, senza anestesia, e il dente viene via tra le branche della pinza.
Lo porto con me a futuro ricordo di questa avventura.
Giornata primaverile. Il tempo è bello. L’atmosfera è particolarmente tersa. Partiamo di buon mattino. Abbiamo preparato questa camminata da giorni: abbiamo scelto con cura la nostra meta e studiato dettagliatamente il percorso. Siamo diretti a sud, ad Albugnano, sita a dodici o tredici km di distanza in linea d’aria, sede dell’antica abbazia romanica di Vezzolano, consorella di quella in cui alloggiamo, ma più grande e meglio conservata. Per abbreviare il percorso decidiamo di tagliare per le colline utilizzando mulattiere e sentieri. Sostiamo sul dosso di una collina per osservare un panorama unico: volgendo lo sguardo a nord si offre ai nostri occhi lo spettacolo meraviglioso della pianura padana leggermente velata da una nebbiolina che la copre nascondendo città e campagne. In compenso la corona innevata delle Alpi che la cinge appare nitidissima e di un bianco brillante sotto i raggi del sole. E’ possibile distinguere a sinistra la piramide del Monviso, il monte Bianco, quasi di fronte a noi il gruppo del Monte Rosa nel quale spicca il Cervino. Seguono in successione le Alpi Svizzere e poi quelle Austriache. Chiudono a destra le rocce rosate delle Dolomiti. Restiamo incantati e in silenzio per molti minuti … ma dobbiamo proseguire.
Passando per Tonengo e per Aramengo arriviamo ad Albugnano e di li scendiamo in una valle più in basso.
L’abbazia è imponente, la chiesa in pietra a blocchi squadrati è più grande e un po’ più antica della nostra: la facciata più maestosa, più ricca di decorazioni, è percorsa per tutta la larghezza da un elegante finto loggiato a colonnine e archetti a tutto sesto; il portale più solenne, più ricco di sculture, ci invita ad entrare. L’interno, a tre navate, è simile all’interno della chiesa di Santa Fede, stessa struttura, stesso stile, ma più ampia e con maggior numero e finezza delle decorazioni. Anche qui i capitelli sono tutti diversi, con scolpiti animali, mostri e motivi vegetali. Si dice che ogni capitello fosse opera di un monaco, libero di seguire le sue idee, i suoi gusti, le sue sensibilità artistiche e di rappresentare le raffigurazioni delle varie forme assunte dal tentatore, sia a fini scaramantici contro le sue lusinghe, sia a fini di deterrenza e di ammonimento nei confronti del fedele per indurlo a tenersi lontano dal peccato.
Sommersi in queste suggestioni, consumiamo il pranzo al sacco, seduti nel prato antistante. Con tutta calma, nel pomeriggio, facciamo ritorno a casa.
Il monachesimo è un modo di vivere la fede e la religione in maniera più intensa nella ricerca di una vicinanza a Dio diretta mediante la pratica dell'ascesi e del misticismo. Non è esclusivo del Cristianesimo essendo presente in altre religioni, ne sono un esempio quelle orientali come il Buddismo. Ma è nel Cristianesimo che assume le forme più varie: dall'eremitismo al cenobitismo, dalla clausura all'impegno più vario nel sociale, ecc.
I monasteri
Le figure più note di anacoreti furono Antonio e Girolamo.
Il fondatore del cenobitismo fu Pacomio che nel 320 fondò il primo monastero a Tebennisi sulle rive del Nilo.
La prima regola fu dettata da Basilio di Cesarea. I monasteri basiliani si diffusero in Oriente, in Grecia, in Sicilia e Italia Meridionale.
In Occidente si affermarono due regole: quella dell'irlandese-celto Colombiano con irradiazioni in Germania, Svizzera e Italia; e quella del romano-italico Benedetto da Norcia, con irradiazioni in Italia, Inghilterra, Paesi Bassi, Scandinavia, Germania e Francia. Nella prima prevaleva il rigore ascetico e il lavoro di cultura: la trascizione di codici. La seconda era più moderata per il rigore ascetico, ma era più organica nel definire preghiera comune e lavoro con finalità sociali, compreso il lavoro manuale.
Il monachesimo benedettino ebbe origine nel 529 a Montecassino, Terracina, Subiaco. Ancora vivente Benedetto, ebbe larga diffusione in Italia. Sotto il pontificato di Gregorio Magno ebbe inizio la diffusione in Europa a cominciare dall'Inghilterra, proseguendo sotto il pontificato di Bonifacio in Germania , nei Paesi Bassi e in Scandinavia.
Dopo un periodo di progressiva decadenza rifiorì a Cluny (910), con il ritorno alla purezza della regola benedettina. Diversi adattamenti alla regola diedero origine a diverse congregazioni (di Camaldoli, di Vallombrosa, di Montevergine, dei Silvestrini, dei Celestini, degli Olivetani). Successivi rilassamenti della regola provocarono la riforma dei Cistercensi (1098) e infine nel 1599 dei Trappisti o Cistercensi riformati.
La regola benedettina abbandona il principio orientale della fuga dal mondo e dell'autopunizione per meritare il perdono di Dio. Impone invece il servizio di Dio nelle tre forme della preghiera, dell'attività manuale e di quella intellettuale, strumenti diversi di santificazione e di amore al prossimo.
Essa comanda l'umanità: non ordina l'impossibile, ordina di aver riguardo al fratello infermo, toglie alla fatica il carattere punitivo ed espiatorio, ordina di mettere i beni in comune, chiede a ciascuno di lavorare secondo le sue possibilità e distribuisce i prodotti secondo i bisogni di ognuno (Agasso: Storia d'Italia -Mondadori - pag. 152).
Mentre il monachesimo orientale non dava importanza al tempo , Benedetto invece lo rivaluta come una ricchezza da investire oculatamente in certi modi all'unico fine della perfezione. Per lui non esistono ore vuote, da dissipare a piacimento: egli fonda tutto sulla stabilitas: con la comunità fissata stabilmente in un luogo e il monaco fissato alla comunità. Il monaco lavora, prega, si riposa secondo un ritmo prestabilito che non richiede eroismo ma perseveranza, un ritmo umano, ma appunto per questo da rispettare rigorosamente. La giornata del monaco seguiva la cadenza tradizionale , ereditata da Roma, di tre ore in tre ore: mattutino (mezzanotte), laudi (ore tre), prima (ore sei), terza (ore nove), sesta (ore 12, mezzogiorno), nona (ore quindici), vespri (ore diciotto), compieta (ore ventuno). Il dì e la notte erano sempre ciascuna di dodici ore: l'ora però era di durata variabile: le ore notturne più lunghe d'inverno e più brevi d'estate, quelle diurne al contrario più brevi d'inverno e più lunghe d'estate (ibid.pag.154).
L'idea fondamentale era che il monastero dovesse bastare a sé stesso, formare un sistema economico completo e una società vivente a sé, autonoma, sotto l'autorità paterna, ma assoluta, dell'abate.
Il monastero costituiva una unità economica la cui base era la proprietà e il lavoro: la proprietà, acquisita o con la semplice occupazione di terreni nullius, o a seguito di donazioni; il lavoro, quello dei monaci e quello dei coloni accorsi spontaneamente o donati insieme con le terre. Il terreno intorno al monastero veniva disboscato, dissodato, e ridotto ad orto, a frutteto, a campo (Salvatorelli, ibid, pag.152).
Forme e sviluppi del monachesimo
La forma originale e più radicale del monachesimo cristiano fu quella degli anacoreti (anche eremiti (da §ρημoς = deserto) o segregati, dalla preposizione vα (ana) = lontano e il verbo χωρέω (choreo) = abito della lingua greca) che vivevano del tutto isolati nei deserti di Egitto o Siria fin dal III sec. (Enc. De Agostini). Gli anacoreti operavano un distacco totale dal mondo: dagli uomini vivendo in solitudine, dagli agi, dalle comodità e dai beni della vita terrena accontentandosi per riparo di una grotta o anfratto o capanna di frasche, per vestito di una veste di tela povera e ruvida o di una pelle di animale o della semplice propria pelle, per cibo di bacche, insetti, lucertole e serpi. Trascorrevano il tempo in preghiera, in meditazione e in penitenza spirituale e corporale.
La seconda forma del monachesimo cristiano fu quella delle laure (dal greco λαύρα (làyra) = gola tra i monti), costituite da raggruppamenti di anacoreti con servizio religioso comune (Enc. De Agostini). Nelle laure il distacco dal mondo era pure totale con la differenza di una mitigazione della solitudine, in quanto gli anacoreti, pur vivendo una parte della giornata isolati e distanziati ognuno nella propria grotta o capanno, erano sottoposti alla guida di un egùmeno o abate e in momenti determinati del giorno si riunivano in un luogo comune per gli uffici religiosi e potevano usufruire di un pasto comune anche se servito separatamente. Si sviluppò dal V sec., costituendo poi dei villaggi attorno a una chiesa.
La terza forma di monachesimo cristiano fu quella dei cenobiti (dal greco κoιvός (coinòs) = comune e βίoς (bios) = vita, vitto). Il cenobio era contraddistinto da un recinto entro cui i monaci vivevano e lavoravano impegnati a una stretta obbedienza a un capo (egùmeno, abate), all'osservanza della regola stabilita, vestiti di un rozzo saio con cappuccio di foggia e stoffa uguale per tutti, legato alla vita da una corda, prendevano in comune i magri pasti e si riunivano per la preghiera (Enc. De Agostini).
Il cenobio poteva trovarsi sia lontano che in vicinanza o, in alcuni rari casi, entro gli abitati. Il monaco lavorava di solito entro il recinto, ma poteva anche lavorare fuori, quello che contava era che doveva evitare di entrare in relazione con gli estranei.
Il recinto racchiudeva degli edifici destinati alle pratiche e alla vita comune: la chiesa, le cucine, il refettorio, il capitolo; al suo interno erano pure le celle dei singoli monaci, dapprima separate e poi anche unite in un unico fabbricato.
Concetto
Il monachesimo cristiano è l'istituzione nella quale, mediante l'isolamento dal mondo, con la rinunzia ai beni (ascetismo)[1] si cerca di raggiungere la salvezza, ma pure l'intimità con Dio come partecipazione più piena e intensa alla realtà divina già in questo mondo con la sua contemplazione (misticismo)[2] (Enc. De Agostini).
L'ascetismo si propone il dominio degli impulsi sensibili fino alla loro soppressione. Un suo aspetto preminente è la ricerca di una tecnica della rinuncia ai piaceri sensibili, che si concreta generalmente nell'astensione dal cibo o nell'uso di cibi ingrati, nella resistenza al sonno, nel contrastare gli appetiti anche sessuali, nella sopportazione del dolore fisico (Enc. Europea).
Esso comporta quindi astinenze, digiuni, mortificazioni corporali e psichiche.
Il misticismo cristiano è la particolare esperienza religiosa che consiste in una speciale immediatezza di contatto esperienziale con la divinità, colta intuitivamente, superando le mediazioni caratteristiche di ogni altra espressione religiosa, ed attuata con il distacco dalla condizione umana nella storia con le sue limitazioni spazio-temporali e con la comunione con Dio. Esso può esprimersi anche attraverso stati psichici speciali come visioni ed estasi cui possono accompagnarsi il rallentamento di attività materiali (anestesia, trance) e talvolta fenomeni eccezionali (levitazione, stimmate, ecc.). (da Enc. Europea)
Il misticismo è favorito dall'ascetismo.
Gli stati psichici speciali che l'accompagnano non sono sempre segno di misticismo, poiché possono accompagnarsi ad altri fenomeni potendo essere indotti anche da altre cause: droghe, danze sfrenate, suoni di tamburi, ecc. (Enc. De Agostini).
Origini
"Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri... ; poi vieni e seguimi" (Mt.19,21); "Chiunque avrà lasciato case, o fratelli o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna" (Mt.19,29). Queste parole delineano due forme di vita cristiana: quella comune consistente nell'osservanza delle leggi e dei precetti religiosi e quella perfetta consistente nella pratica eroica delle virtù evangeliche: povertà, castità, obbedienza.
Nelle prime comunità cristiane la verginità e la comunione dei beni avevano grande importanza nella prospettiva del distacco dal mondo. Ma fu solo successivamente al '300 d.C. che ebbe rapida diffusione il monachesimo sia sotto forma eremitica che cenobitica, in coincidenza della politica di pacificazione religiosa dell'imperatore Costantino. Essa portò al cristianesimo masse enormi di seguaci, che inevitabilmente abbassarono il livello morale delle comunità, mentre i vescovi vennero ad assumere spesso dignità e poteri terreni non sempre in accordo con i principi evangelici. In questa situazione un numero crescente di cristiani fuggì dal mondo alla ricerca di una rigorosa osservanza evangelica (Enc.Europea).
Origini
"Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri... ; poi vieni e seguimi" (Mt.19,21); "Chiunque avrà lasciato case, o fratelli o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna" (Mt.19,29). Queste parole delineano due forme di vita cristiana: quella comune consistente nell'osservanza delle leggi e dei precetti religiosi e quella perfetta consistente nella pratica eroica delle virtù evangeliche: povertà, castità, obbedienza.
Nelle prime comunità cristiane la verginità e la comunione dei beni avevano grande importanza nella prospettiva del distacco dal mondo. Ma fu solo successivamente al '300 d.C. che ebbe rapida diffusione il monachesimo sia sotto forma eremitica che cenobitica, in coincidenza della politica di pacificazione religiosa dell'imperatore Costantino. Essa portò al cristianesimo masse enormi di seguaci, che inevitabilmente abbassarono il livello morale delle comunità, mentre i vescovi vennero ad assumere spesso dignità e poteri terreni non sempre in accordo con i principi evangelici. In questa situazione un numero crescente di cristiani fuggì dal mondo alla ricerca di una rigorosa osservanza evangelica (Enc.Europea).
DOTTRINA CRISTOLOGICA
Nell'elaborazione dottrinale del primo e secondo secolo la figura del Cristo viene notevolmente rivalutata.
Sulla figura di Gesù la concezione dottrinale subisce una graduale e sostanziale evoluzione:
a) Gesù in un primo tempo è definito " servo di Dio e profeta " ( Atti cap 3-4 ).
b) In un secondo tempo Gesù viene definito " figlio di Dio " da Paolo nel senso di uomo di Dio (Atti 9, 20; 13, 33; Rom.1, 4; 15,6 ; Gal.4, 4-7); "figlio di Dio prediletto " (Mt.3, 17 ), "figlio primogenito " (Ebr.1, 6) espressioni che lasciano presupporre che non sia figlio unico; "figlio di Dio non da sempre" ma da un determinato momento: "oggi ti ho generato " (Ebr.1, 5) "costituito figlio con la resurrezione " (Rom.1, 4).
c) In un terzo tempo Gesù viene definito "figlio di Dio " in senso generazionale (Ebr.1).
d) In fine Gesù viene definito " Dio " (Col.2, 9: "è in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità") e come tale oggetto di adorazione ( Ebr.1, 6: "lo adorino tutti gli angeli di Dio ").
e) Gesù come Dio viene identificato con il LOGOS (Giov.1, 1; Scuola catechetica di Alessandria nel II e III sec. da Clemente [ fine II sec.-inizi IIIsec.]). Gesù " figlio unigenito generato ab aeterno, della stessa natura del Padre ma a lui subordinato" (Origene della Scuola catechetica di Alessandria [ fine II sec. inizi III sec.]).
POLEMICHE CRISTOLOGICHE E DEFINIZIONE DELLA DOTTRINA CRISTOLOGICA
- ARIO (256-336), influenzato dal subordinazionismo, affermò che l'essere di Dio non è partecipabile al Logos che è creato dal Padre dal nulla e quindi non gli è coeterno.
- ATANASIO (295-373) e Concilio di NICEA (325) affermano che il figlio è generato dal Padre, è unigenito e consustanziale al Padre (Credo).
- NESTORIO (patriarca di Costantinopoli V sec.) definì Gesù uomo-Dio con due nature e due persone.
- CIRILLO (patriarca di Alessandria) e Concilio di EFESO (431) affermano che in Gesù uomo-Dio vi è una sola persona.
- APOLLINARE ed EUTICHE monofisiti [1] affermano che in Gesù uomo-Dio vi è una sola natura.
- LEONE MAGNO e il Concilio di CALCEDONIA (451) affermano, e sarà la dottrina definitiva della Chiesa, che in Gesù uomo-Dio ci sono due nature ed una persona, quella divina.
[1] Monofisiti da Monos =unico e Fysis = natura.
DOTTRINA TRINITARIA
Nella Scrittura, oltre al termine, manca qualsiasi definizione concettuale, o una dottrina della Trinità. L'elaborazione di un dogma trinitario avverrà ad opera della speculazione teologica successiva all'epoca neotestamentaria e si compirà soltanto alla fine del IV sec.
Il problema cominciò ad essere posto nel corso del IIE sec. con la definizione della divinità del Figlio passando attraverso la speculazione filosofica ellenistica della Scuola catechetica di Alessandria, attraverso l'adozionismo (eresia predicata da Teodoto di Bisanzio che non riconosceva a Gesù la divinità ma solo una santità superiore per il fatto che Dio gli aveva affidato la salvezza degli uomini, condannata da papa Vittore e successivamente dal Concilio di Antiochia [268]) e il modalismo (eresia dei sec.IIE e IIIE che negava una distinzione reale di persone in Dio, e concepiva la Trinità come un "modo" diverso di manifestarsi di Dio, combattuta dagli apologisti Tertulliano e Ippolito e dai papi Zefirino [198-217] e Callisto [217-222]), trovò una prima conclusione nel Concilio di Nicea (325) e una sistemazione definitiva con la definizione della divinità dello Spirito nel Concilio di Costantinopoli (381).
DOTTRINA MARIOLOGICA
A parte la leggenda dell'annunciazione e della nascita miracolosa, la famiglia di Gesù nei vangeli resta abbastanza in ombra ed appare anzi in discordia con lui nei due sconcertanti episodi narrati da Marco in 3, 21 in cui i familiari tentano di catturarlo credendolo pazzo e in 3, 31-35 in cui egli rifiuta di ricevere la madre, i fratelli e le sorelle. Comunque nei vangeli Maria appare come una madre come tutte le altre, non solo ignara della sua missione, ma piuttosto preoccupata per quel figlio "strano"; inoltre negli altri libri del N.T. essa è pressoché ignorata del tutto.
Finché Gesù fu ritenuto un "santo", un "profeta" di Dio non scandalizzava nessuno che la sua famiglia fosse costituita da gente comune e che Maria fosse madre di numerosi figli: cinque maschi (Giacomo, Joses, Giuda, Simone) e un numero non precisato di femmine (Mc.6, 3).
Ma allorché si andò affermando la dottrina della divinità di Gesù nel II sec. si incominciò a lasciare in ombra tutto ciò che sembrava in contrasto con questo stato di Gesù e a costruire una figura di Maria confacente con la dignità del figlio: si diede credito e si rafforzò la tradizione della nascita miracolosa per intervento divino, della verginità prima e dopo il parto, fino a giungere al concilio di Efeso (431) in cui fu proclamata "madre di Dio ", forse sotto l'influsso dei culti di divinità femminili molto popolari nell'area mediterranea e soprattutto nell'Anatolia, dando così inizio al culto della madre di Dio in tutte le sue forme. Gli ultimi dogmi che la riguardano sono in ordine di tempo quello dell'Immacolata Concezione senza peccato originale, proclamato dal Concilio Vaticano I (1854) e quello dell'assunzione in cielo del suo corpo dopo la morte, proclamato da Pio XII nel 1950.
CULTO DEI SANTI
Iniziato come ammirazione verso quei cristiani che avevano testimoniato eroicamente fino alla morte la loro fede e assunti come modelli; proseguito come custodia dei loro corpi, è continuato come venerazione delle loro reliquie.
La commemorazione nel martirologio nel giorno della loro morte si trasforma nei secoli successivi in vere e proprie festività. La raffigurazione dei santi prima in forma pittorica nelle chiese e successivamente in forma scultorea apre la strada al vero e proprio culto, all'erezione di templi e santuari in loro onore, meta di pellegrinaggi, ad essi i fedeli rivolgono preghiere e suppliche, e chiedono grazie, i loro simulacri vengono portati in processione ecc.
Il culto di Maria e dei santi ha sostituito nella cultura del popolo i culti pagani delle religioni precristiane. A volte festività cristiane sono la continuazione di festività pagane con il semplice cambiamento di nome.
DOTTRINA DELL'ALDILA'
Nel racconto del povero Lazzaro e del ricco (Lc.16, 19-31) emerge la teorizzazione di un aldilà costituito dal "regno dei cieli" dove si trova Abramo, i patriarchi, Mosè ed i profeti e da un inferno, luogo di tormenti dove i cattivi bruciano nel fuoco.
Nei secoli successivi maturò la dottrina del "purgatorio",
inteso come terzo luogo dell'aldilà dove le anime, non meritevoli dell'inferno e neppure degne del paradiso, scontano una pena temporale in attesa di meritare il paradiso.
Il primo a parlare di pene temporali da scontare dopo la morte fu Clemente Alessandrino nel IIIE sec.
Nel VI sec. Cesario di Arles (m.nel 542) chiama "purgatorio" la pena temporale dopo la morte.
Gregorio Magno (540-604) enuncia la dottrina del purgatorio, ripresa nel XIII sec. da Tommaso d'Aquino e definita successivamente dai concili di Lione (1274), di Firenze (1439) e di Trento (1545-1563).
DOTTRINA DELLA STORIA
Nei testi del N.T. non emerge una concezione della storia, a parte gli spunti escatologici dei vangeli e dell'apocalisse. Sarà la riflessione dottrinale dei primi secoli, culminante con il pensiero di Agostino, a formulare una concezione della Storia vista come un tessuto di vicende umane e di interventi divini ordinati in un processo unitario in cui la Provvidenza è protagonista e ruotanti attorno ad alcuni avvenimenti chiave: la creazione, il peccato originale, la redenzione, il ritorno del figlio dell'uomo, la fine del mondo, il giudizio universale.
Concetto di Dio
Il Dio di cui parla Gesù non è concettualmente lo stesso Dio dell' ebraismo. I patriarchi che fondarono la religione ebraica erano padroni di torme di servi e schiavi, che trattavano alla stessa stregua dei loro armenti e dai quali esigevano sottomissione assoluta; il loro Dio non poteva che essere, al pari di essi, che un Dio padrone, esigente, geloso, severo e vendicativo. I patriarchi, proprietari di greggi e armenti, erano in continuo conflitto reale o potenziale con i vicini per i pascoli o per i pozzi per l'abbeverata, ciò spiega il loro carattere bellicoso e il loro Dio non poteva che essere un Dio degli eserciti.
Gesù invece era povero, figlio di poveri, equiparato agli schiavi, le cui aspirazioni sono opposte a quelle dei padroni: essi aspirano alla libertà, alla equiparazione umana, civile e giuridica con i "liberi", essi hanno "fame" di rispetto, di considerazione, di comprensione, di amore. Il Dio di costoro e quindi di Gesù è l'opposto del Dio dei padroni, dei patriarchi, è un " DIO PADRE " (pregate così: Padre nostro...Mt.6, 9; padre celeste = provvidenza, Lc.12, 22; parabola del figliol prodigo, Lc. 15, 11-31) buono, remissivo, misericordioso, che ama gli uomini " suoi figli ", che capisce le loro debolezze, che provvede alle loro necessità, che predilige i più deboli, i più indifesi, i più bisognosi soccorrendoli, che perdona infinite volte, che non aspetta chi erra, ma va a cercarlo (la pecorella smarrita Mt. 18, 12).
Concetto dell'uomo
Nel Vecchio Testamento gli uomini sono "servi di Dio" e disuguali in questa servitù: alcuni sono "servi prediletti" verso cui egli è più tollerante e benevolo, tutti gli altri sono reietti senza speranza.
Per Gesù invece gli uomini sono "figli di Dio", e come tali tutti uguali e, se fra essi ci sono dei prediletti, questi sono i meno fortunati: i poveri, i sofferenti, i deboli, i perseguitati, le pecorelle smarrite, coloro che sbagliano, ecc.
Nel Nuovo Testamento non si fa cenno dell'anima e della sua immortalità, anche se è ammessa un'esistenza dopo la morte ( se vuoi entrare nella vita eterna Mt.19, 16-17; Lazzaro e il ricco Lc.16, 19-31 ) ma si punta piuttosto alla "resurrezione dei morti".
Comandamento della carità
Dal latino "caritas"=benevolenza, dal greco χάρις, ιτoς, charis = amabilità, benignità, benevolenza.
"Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente ", "amerai il prossimo tuo come te stesso " (Mt.22, 37 e 39).
Circa il significato di "prossimo tuo " si veda la parabola del buon samaritano (Lc.10, 25-37), per la quale il "prossimo " comprende anche lo straniero, e perfino il nemico: "ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano " (Lc.6, 27-28).
E' da tenere presente anche la parabola della pecorella smarrita e quella del figliol prodigo, la quale illustra anche il valore dell'uomo stimato al di sopra di ogni bene terreno e di ogni ricchezza.