Ottobre 1948. Nel primo pomeriggio, in comitiva, lasciamo Via Cernaia[1] diretti alla stazione Termini. Viaggiamo tutti insieme in un vagone dai sedili di legno. Resto tutto il tempo con il naso incollato al vetro del finestrino. Mi piace osservare il paesaggio: scorrono davanti ai miei occhi il fiume Tevere che si torce in numerose anse, le colline a declivio dolce e verdi di filari di vite così diverse dalle nostre brulle e pietrose, le pianure coltivate a granoturco, il lago Trasimeno, la Val di Chiana disegnata in ampi rettangoli delimitati da filari di pioppo e da ampi e diritti canali di prosciugamento. Scendiamo a Castiglion Fiorentino[2]. Ognuno trascinando la propria valigia, percorriamo faticosamente il tratto che ci separa dalla nostra meta. Al cancello del Rivaio[3]siamo accolti dal volto aperto, gioviale e scherzoso di Padre Granero che ci accompagna in camerata per una rinfrescata e per la sistemazione dei letti ognuno con le lenzuola e le coperte portate nel proprio bagaglio. A cose fatte scendiamo per la cena. Il refettorio è un ampio stanzone con la volta a botte dipinta, come le pareti, in colore beige.
Il pane bianco sulla tavola è veramente invitante. Ancora non lo si può toccare: la preghiera di ringraziamento del pasto non è terminata! All’ “amen” ci sediamo, ma ancora nessuno allunga la mano verso il cesto per non sembrare allupato! Ma la fame c’è, eccome! Timidamente, dopo alcuni secondi di esitazione, con movimento lento stendo la mano e prendo una bella fetta assaporandola con gli occhi. Al primo morso la masticazione si arresta con disgusto! … Ma che è? … Questo non è pane!
Guardo in faccia i dirimpettai e leggo nei loro occhi la stessa delusione! Sono laziali.
Più in là, altri continuano a mangiare con appetito! Sono toscani.
Non possiamo parlare! Durante i pasti vige il silenzio. Risuona nell’ampio refettorio, dal podio collocato tra la tavola dei professori e le tavolate degli alunni, la sola voce del lettore di turno: – Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo … costretti dalla fame … picchieremo e chiameremo e pregheremo (il portinaio) per l’amor di Dio con gran pianto, che ci apra, e quelli più scandalizzato dirà: “costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come son degni”, e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involveracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone; se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, … o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia. –[4]
Incasso il messaggio. Ingoio il boccone e la delusione e continuo la cena a base di minestra. Osservo i più anziani che spezzettano il pane nel brodo della minestra; li imito … così il sapore è più accettabile.
Per l’eccezionalità dell’evento: l’arrivo di noi nuovi, il padre superiore dà il “Deo gratias”, parola magica che apre la conversazione.
L’effetto è un boato, non per l’urlo dei singoli, ma per la somma di settantacinque voci, che anche in tono normale, esplodono tutte insieme. Noi nuovi arrivati siamo bombardati dalle domande dei più anziani che vogliono sapere i nostri nomi, da dove veniamo … - ah! Dalla Calabria! – la loro voce si mozza, mentre i loro occhi ci si fissano addosso nella meraviglia che siamo degli esseri umani … come gli altri ragazzi!
Esaudite le loro curiosità, chiediamo del pane … - è senza sale! così si usa in Toscana!
“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui … “ [5].
Per Dante è una delle pene connesse all’esilio. Per me sarà un sacrificio derivante da una scelta più o meno indotta.
[1]Via di Roma, poco distante dalla stazione Termini, dove ha sede il Superiore Provinciale dei padri Maristi.
[2]Comune in provincia di Arezzo ai margini orientali della Val di Chiana.
[3]Nome della contrada di Castiglion Fiorentino dove sorge il santuario della Madonna omonima e della scuola dei Maristi, congregazione religiosa votata al culto di Maria.
[4]Da “I fioretti di S. Francesco”
[5]Dante Alighieri: “La divina Commedia" – Paradiso, Canto XVII, 58