ogni ricorrenza sacra aveva il suo alimento di devozione, ogni avvenimento felice o luttuoso della quotidianità si celebrava con il cibo. Una regola non scritta prescriveva la celebrazione della vigilia del Natale attraverso la preparazione del baccalà, le feste di Carnevale esigevano un insieme di piatti a base di carne di maiale, si rispettava la sacralità della Pasqua con il pane rituale conosciuto come “pucciddéatu”. Il tempo ha inesorabilmente affievolito la rigidità di questo diario gastronomico, lasciando però tracce riconoscibili nelle interpretazioni alimentari del nostro antico borgo.
Ancora oggi l’alimentazione dei Tortoresi è essenzialmente quella di un tempo, definita dalle consuetudini, dalle convinzioni popolari e dalla forza della storia.
La Calabria intera, e Tortora non si sottrae a questo evento, nelle sue coltivazioni ha colto, facendole proprie, le influenze delle colture degli Enotri, fondatori di una civiltà di cui si sente ancora vivo l'orgoglio.
Incontestata è ad esempio l'origine greca dei laganoi, le “làgane” proverbialmente amate a Tortora, mentre è probabilmente di origine araba l’usanza di riporre sott'olio e sotto peperoncino la “nudìlla” novellame di pesce azzurro.
Come è evidente, si tratta di un alimento conservato, dunque un tempo speranza vitale nei periodi, non infrequenti, di carestia.
Gli insaccati, la sugna, il lardo, i formaggi, le melanzane sott'olio e i pomodori seccati erano preparati seguendo rituali, invocazioni, auspici e scaramanzie di cui resta ormai solo un sommesso ricordo pronunciato a bassa voce da sagge donne di casa.
La tavola dei Tortoresi non è certo affinata o traboccante d'ingredienti, né potrebbe essere così, data l'ancestrale limitatezza di una terra amara, tormentata per secoli da un'economia rozza che l'ha impoverita di risorse anziché accrescerne le condizioni.
La tavola resta comunque energica, intensa e fortemente aromatica. Le verdure sono, senza eccezione, le protagoniste dell'alimentazione Tortorese, da sole o insieme alla pasta e a tutti i derivati del maiale costituiscono il fondamento della nostra gastronomia.
La verdura che più di ogni altra si presta ad un’infinità di ricette e la melanzana, come non ricordare la tanto decantata preparazione sott’olio che la vede in tavola irriconoscibile nei delicati filetti in salamoia.
Altre verdure immancabili sulle nostre tavole sono i pomodori e i peperoni dai quali si ricava con la benevolenza del sole estivo la memorabile “zafaréana piséata” dal caratteristico colore rosso e dall’immancabile comunione con l’insaccato principe “zazìcchju”.
La centralità del pane nella nostra alimentazione è consacrata dalla preparazione fortemente curata e rituale.
Il nostro è un pane gustoso e ricco di varianti: ricordiamo la “pìtta”, unta abbondantemente d’olio e adornata di fossette, le frese abitualmente chiamate “frisìddi” ed infine il pane di farina di mais (péani cìtrinu) tanto ineluttabilmente in voga nei lugubri tempi di guerra.
Nella nostra tradizione gastronomica, la pasta è un privilegio della “fìemmina”alla qualesi attribuisce la qualità della buona cucina, non tanto per la cottura che ha in ogni caso un valore emerito per raggiungere un buon risultato, ma quanto alla capacità della donna di casa di impastare la farina e l’acqua trasformandola in creative fogge . E fra queste, la forma più diffusa, è quella dei “fusìddi”resi possibili avvolgendo un pezzetto di pasta tornita su uno stelo di saracchio dal quale con abilità e maestria si sfila un lungo, ruvido e attorcigliato saggio di grano saporito. Il condimento classico è il sapido e scivoloso sugo di pomodoro con aglio, olio robusto, peperoncino e carne di capra o castrato.
Oggi, come ieri, re incontrastato della tavola dei Tortoresi è il maiale, da sempre protagonista inconsapevole, prima del complesso rituale della macellazione e poi della trasformazione in appetitosi salumi.
All’abituale lauto pranzo che ricongiungeva la famiglia e gli amici precedeva la visione “di lu cambanéaru” per saggiare la bontà del suino e soprattutto per leggere l’eventuale mala sorte.
Si fanno ancora cuocere, non più nella caldaia di rame, zampe, cotenne, testa, e tutte le altre parti di residui carnosi, dai quali si ricava la gustosa “jìlatina” con la semplice aggiunta di aceto, lauro, sale e aglio.
È tuttora abbondante il consumo di carne di maiale, sia fresca sia stagionata: “capicùoddi”, “prisùtti”, “zuprisséati”,“zazìcchji”, sono pietanze molto apprezzate dai tortoresi. Tra i salumi più tipici la “zuprisséata lagrimusa”,vale a direstillante grassi odorosi, e la “nnùglia”, salame a base di lingua, trippa e altra carne di maiale, che trova l’abbinamento migliore con la “pignéata di fasùli”.
Ogni famiglia ha i suoi segreti tramandati da generazioni per realizzare un armonico accostamento dei sapori. Una cucina dunque che possiamo certamente definire autoctona da qualche secolo: una cucina in cui si mescolano i sapori forti delle più svariate erbe di campo e il peperoncino, in cui la regalità di ogni piatto si consegue per aggiunta di nobili ingredienti. Un’arte culinaria che mescola i sapori sapidi del mare con la genuinità dei prodotti di montagna, una gastronomia che è simile all’indole caparbia degli abitanti di questa nostro straordinario borgo.