Opuscoli

Opuscoli (47)

L’odeon

           Nelle calde serate estive seduti sui gradini della scala, che s’incunea tra i due edifici del Rivaio, come dalle gradinate di un teatro greco, ascoltiamo, da un giradischi posto in basso, brani scelti di musica classica. Ora voliamo sulle ali dorate del “Va! Pensiero!” del “Nabucco” di Verdi, ora fremiamo alle mille invenzioni sonore di Rossini nel preludio del “Barbiere di Siviglia” e ne “La gazza ladra”, ora siamo presi nel turbinio delle note de la “La danza delle ore” di Ponchielli, o ci innalziamo nei cieli più puri con “ La Vergine degli Angeli” de “La forza del Destino” di Verdi, o ci commuoviamo fino alle lacrime alla limpida voce tenorile di Beniamino Gigli che canta “Mamma”. Non finiamo di correre leggeri leggeri dietro le note della “Primavera” di Vivaldi,  che si leva alta e vigorosa la voce de la “Casta Diva” della “Norma” di Bellini. Chiudiamo la serata inseguendo le poderose note dell’organo nella “Fuga” di Bach. 

         Sono serate per me, ma, credo, anche per gli altri, cariche di grande emozione che mi accompagnerà negli anni avvenire all’ascolto della buona musica. 

Vorrei tanto che questa passione fosse confortata dalle capacità di cantore e di suonatore, ma sono stonato e solamente un cattivo strimpellatore privo del senso del ritmo ed anche della manualità necessaria per padroneggiare la tastiera dell’armonium l’unico strumento a nostra disposizione. Io preferisco quello dell’aula della classe quarta: ha dei registri che gli conferiscono una sonorità che mi tocca, ma riesco solo a farlo gemere lamentevolmente sotto le mie dita.

Monte S.Egidio

          Siamo nel mese di settembre del 1950. Siamo rientrati dalle vacanze da 25 giorni. Prima di cominciare il regolare corso delle lezioni viene programmata la gita annuale sul Monte Sant'Egidio. E’ una montagnola di1057 metri sul livello del mare sita a sud-est di Castiglion Fiorentino e a nord-est di Cortona. Partiamo di buon mattino a piedi per coprire un percorso di una decina di chilometri. Ai più robusti della IV e V classe il compito di portare a spalla la marmitta, il pentolame, i piatti di carta, le posate e le cibarie crude.

Per la prima metà del tragitto seguiamo una stradina sterrata fino a Ristonghia, piccolo nucleo di case a circa500 metridi altezza, la seconda metà è un sentiero che si inerpica tra arbusti e radi alberi.

Per ingannare la stanchezza delle gambe, che si fa sentire a mano a mano che saliamo, ci teniamo su con ‘la montanara’, ‘la pastorela’, ‘la  tradotta’, ‘la canzone del Piave’ e altre del repertorio.

Giunti in cima respiriamo a pieni polmoni. Dopo alcuni minuti di riposo, diamo inizio all’esplorazione nei dintorni anche allo scopo di procurare ai cuochi sterpaglie e legnetti secchi per cuocere la pasta e la carne. Il lato sud della cima è incorniciato da un boschetto di larici. A sud ovest si intravedono in basso i tetti di Cortona. Ad ovest ammiriamo in tutta la sua estensionela Valdi Chiana. Ad est il territorio si estende ondulato tra valli e alture, tra le quali i monti Castel Giudeo, Ginozzo e della Croce, un po’ meno elevati del punto in cui siamo. A nord est in una valle, che a tratti si allarga e a tratti si restringe, scorre il torrente Nestore, affluente del Tevere. La radura adiacente il boschetto è coperta di lamponi, ne mangiamo e ne raccogliamo in abbondanza anche per portarne a casa. E’ la prima volta che vedo lamponi! Mi ricordano le more dei rovi che fanno da siepe ai campi della Marina di Tortora, delle quali ero solito fare delle scorpacciate.

         Il pranzo è servito caldo e fumante. Ci sparpagliamo per la radura, ciascuno alla ricerca di un sedile di fortuna. Chi trova un sasso, chi un tronco, chi uno spuntone di roccia, chi, infine, si siede per terra sull’erba. Anche se bisogna evitare di frequentare sempre gli stessi compagni, io prendo posto nelle vicinanze di Reale. E’ un compagno di classe, laziale, capelli neri pettinati di traverso sulla fronte, buono, quanto è alto, tanto è timido, per questo oggetto dei miei frizzi e scherzi dai quali si schermisce lanciando dei gridolini come un bambino.

         Il ritorno è accompagnato dai soliti canti, ma le voci sono più stanche come le gambe e a sera non abbiamo bisogno di contare le pecore per addormentarci profondamente.

 

La vendemmia

            E’ giovedì, secondo giorno settimanale di passeggiata. E’ un bel pomeriggio autunnale. Ci troviamo a percorrere una carrabile sterrata in direzione della contrada ‘ La Nave’. Il sole scotta ancora, gli andiamo incontro e ci acceca.  

Camminiamo a gruppi, vociando allegramente. Alle nostre spalle il monte Corneta, davanti a noi ma in lontananza le dolci colline di Foiano della Chiana. Oggi siamo particolarmente contenti: siamo stati invitati ad una vendemmia.  

Qui nella Val di Chiana la vite viene fatta arrampicare sui pioppi piantati ai margini dei canali di scolo, tracciati a mo’ di rete, che disegna a grandi rettangoli la piana. Si dice che la Val di Chiana appartenga a due grandi latifondisti. I latifondi, a loro volta, sono divisi in grandi unità produttive di qualche ettaro ciascuna. Ogni unità è data in colonìa ad una famiglia di contadini che vivono in grandi cascinali affiancati da stalle dove vengono allevati grandi bovini dalle lunghe corna: i buoi destinati a trainare l’aratro, le mucche riservate alla produzione di vitelli e di latte. La terra è molto fertile: produce in prevalenza grano e mais. Quello che colpisce particolarmente me, abituato alla campagna tortorese fatta di piccoli fondi in cui gli alberi da frutta contendono lo spazio alle altre coltivazioni, è la grande estensione di ogni appezzamento in cui ogni rettangolo è equivalente all’estensione di Castrocucco. Mentre da noi i contadini conducono un vita magra, qui stanno bene e godono di un certo benessere, sono tutti comunisti dichiarati ma credenti, direi pure devoti. Questo spiega il loro invito alla vendemmia per noi.  

Arriviamo in un grande spiazzo: da un lato il cascinale con le stalle, dall’altro lato una fila di pagliai, al centro un grande tino sormontato da una capiente pigiatrice. Un uomo gira la manovella, delle donne svuotano nella tramoggia le corbe ricolme di grappoli, scaricate dai carri che provengono dai campi. L’odore del mosto appena ricopre l’acre olezzo che proviene dalle stalle. A parte ci sono due corbe traboccanti di grossi grappoli di uva bianca e di uva nera. Sono per noi. Ne prendiamo e mangiamo, dapprima in silenzio, poi sempre più allegri e scherzosi. Finiamo per scagliarci chicchi l’un l’altro. I contadini ci guardano felici e sorridenti. Il cortile risuona dei gridolini gioiosi di tutti i miei compagni, sopra di tutti i ‘babbino, babbino!’ di Santini, invocazione con la quale reagisce nei momenti di paura ma anche agli scherzi. La madre è morta alla sua nascita, lo ha allevato il padre. 

Ringraziata la generosità di quelle buone persone, ritorniamo al Rivaio.

 

 

Cozzano

            E’ spesso meta delle nostre passeggiate. Il posto, a tre-quattro chilometri a nord di Castiglion Fiorentino, ha un incanto particolare per la presenza di boschetti e di un ruscello che gorgoglia allegro tra i sassi e la vegetazione. Di qua c’è qualche casetta di contadini, di là una bella chiesetta che occhieggia tra i rami delle querce.

         Cresciuto quasi nel greto del Noce, abituato a passare il tempo nel periodo estivo trastullandomi nei giochi di canalizzazioni e cascatelle e diguazzando coi piedi nell’acqua, non mi pare vero di trovarmi anche qui sulle rive di un corso d’acqua.

         Mentre gli altri si sfrenano a gettare sassi nelle conche divertendosi alle grida di chi viene colpito dagli schizzi, mi diverto anche qui, in solitario, con le mani nell’acqua a creare deviazioni e piccoli corsi artificiali a diversa pendenza per osservare l’effetto erosivo della corrente nelle anse. E’ qui che nel mio immaginario ambiento, chissà perché, la favola del lupo e dell’agnello. Per me è il paradiso terrestre! Peccato che il tempo passa rapido ed in breve bisogna lasciare tutto e rientrare al Rivaio!.

 

Il vulcano

             E’ martedì, primo giorno settimanale di passeggiata. Ci incamminiamo lungo la via Cassia nella direzione di Arezzo. Dopo un primo tratto in fila per due, arriva l’ordine di ‘rompete le righe!’ e continuiamo in piccoli gruppetti lungo il margine destro della strada. Dopo circa un chilometro svoltiamo a destra per una stradina di campagna.

Ci accompagna un sole primaverile che va e viene dietro le nuvole. Chi, di nascosto, caccia le lucertole, chi con bastoni di fortuna, raccolti via facendo, batte i cespugli, chi caracolla avanti e dietro padre Granero che ci accompagna e che intrattiene il gruppo a lui più vicino con racconti sulla sua vita di studente. Dopo circa mezz’ora arriviamo ad una collinetta boscosa detta ‘il vulcano’ forse per la sua forma conica. I suoi declivi sono dolci e coperti da cespugli di piante varie e da radi alberi di pino. Nella piccola radura sulla cima organizziamo il gioco.

Ci dividiamo nelle due squadre dei soliti greci e troiani. Si tratta di una guerra finta in cui i componenti di ogni squadra, dopo aver preso posizione in zone opposte della collinetta, avanzano in direzione dei ‘nemici’ nel tentativo di conquistarne il territorio. Nell’avanzata ognuno procede nascosto fra i cespugli per non farsi vedere dagli avversari. Chi si espone ed è visto viene chiamato per nome, fatto in tal modo prigioniero, deve uscire dal gioco e ritirarsi nella radura. Vince la squadra che, eliminando tutti i ‘nemici’, ne conquista il territorio. Padre Granero è sempre pronto con bonarietà a dirimere il frequente contenzioso tra i contendenti. - “Ti ho visto!” – “No, non mi hai visto!” - . Mentre le avanguardie avanzano, alcuni della retroguardia si attardano fra i cespugli in attività di esplorazione autonoma del bosco. Vanno a costituire i ‘dispersi’ che non fanno tornare i conti nella numerazione dei prigionieri e lasciano incerto l’esito della ‘guerra’. - Cherubini … ! Belli … ! … Cherubiniii … ! Belliii … ! – Finalmente spuntano da campi opposti. Sono gli ultimi ‘dispersi’ … . Il primo guadagna la radura saltellando … , si era attardato dietro delle coccinelle di cui stringeva in mano un esemplare. Il secondo, un sognatore, si era fermato a studiare dei fiori di biancospino e raccolto una violacciocca.

Ora che siamo tutti possiamo tornare. Ci attende, nelle due ore di studio, l’ira di Achille per la perdita della sua bella Briseide!

 

          Ottobre 1948. Nel primo pomeriggio, in comitiva, lasciamo Via Cernaia[1] diretti alla stazione Termini. Viaggiamo tutti insieme in un vagone dai sedili di legno. Resto tutto il tempo con il naso incollato al vetro del finestrino. Mi piace osservare il paesaggio: scorrono davanti ai miei occhi il fiume Tevere che si torce in numerose anse, le colline a declivio dolce e verdi di filari di vite così diverse dalle nostre brulle e pietrose, le pianure coltivate a granoturco, il lago Trasimeno, la Val di Chiana disegnata in ampi rettangoli delimitati da filari di pioppo e da ampi e diritti canali di prosciugamento. Scendiamo a Castiglion Fiorentino[2]. Ognuno trascinando la propria valigia, percorriamo faticosamente il tratto che ci separa dalla nostra meta. Al cancello del Rivaio[3]siamo accolti dal volto aperto, gioviale e scherzoso di Padre Granero che ci accompagna in camerata per una rinfrescata e per la sistemazione dei letti ognuno con le lenzuola e le coperte portate nel proprio bagaglio. A cose fatte scendiamo per la cena. Il refettorio è un ampio stanzone con la volta a botte dipinta, come le pareti, in colore beige.

Il pane bianco sulla tavola è veramente invitante. Ancora non lo si può toccare: la preghiera di ringraziamento del pasto non è terminata! All’ “amen” ci sediamo, ma ancora nessuno allunga la mano verso il cesto per non sembrare allupato! Ma la fame c’è, eccome! Timidamente, dopo alcuni secondi di esitazione, con movimento lento stendo la mano e prendo una bella fetta assaporandola con gli occhi. Al primo morso la masticazione si arresta con disgusto! … Ma che è? … Questo non è pane!

Guardo in faccia i dirimpettai e leggo nei loro occhi la stessa delusione! Sono laziali.

Più in là, altri continuano a mangiare con appetito! Sono toscani.

Non possiamo parlare! Durante i pasti vige il silenzio. Risuona nell’ampio refettorio, dal podio collocato tra la tavola dei professori e le tavolate degli alunni, la sola voce del lettore di turno: – Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo … costretti dalla fame … picchieremo e chiameremo e pregheremo (il portinaio) per l’amor di Dio con gran pianto, che ci apra, e quelli più scandalizzato dirà: “costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come son degni”, e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involveracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone; se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, … o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia. –[4]

Incasso il messaggio. Ingoio il boccone e la delusione e continuo la cena a base di minestra. Osservo i più anziani che spezzettano il pane nel brodo della minestra; li imito … così il sapore è più accettabile.

Per l’eccezionalità dell’evento: l’arrivo di noi nuovi, il padre superiore dà il “Deo gratias”, parola magica che apre la conversazione.

L’effetto è un boato, non per l’urlo dei singoli, ma per la somma di settantacinque voci, che anche in tono normale, esplodono tutte insieme. Noi nuovi arrivati siamo bombardati dalle domande dei più anziani che vogliono sapere i nostri nomi, da dove veniamo … - ah! Dalla  Calabria! – la loro voce si mozza, mentre i loro occhi ci si fissano addosso nella meraviglia che siamo degli esseri umani … come gli altri ragazzi!

Esaudite le loro curiosità, chiediamo del pane … - è senza sale! così si usa in Toscana!

“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui … “ [5].

Per Dante è una delle pene connesse all’esilio. Per me sarà un sacrificio derivante da una scelta più o meno indotta.



[1]Via di Roma, poco distante dalla stazione Termini, dove ha sede il Superiore Provinciale dei padri Maristi.

[2]Comune in provincia di Arezzo ai margini orientali della Val di Chiana.

[3]Nome della contrada di Castiglion Fiorentino dove sorge il santuario della Madonna omonima e della scuola dei Maristi, congregazione religiosa votata al culto di Maria.

[4]Da “I fioretti di S. Francesco”

[5]Dante Alighieri: “La divina Commedia" – Paradiso, Canto XVII, 58

 

Crisi della simultaneità

Facciamo un viaggio in treno.

Immaginiamo un treno. lungo 5.400.000 chilo­metri, che si muova in linea retta  a  una velocità  di 240.000 chilometri al secondo.

Supponiamo che a un certo momento a metà del treno venga accesa una lampadina. Il primo e l'ultimo vagone hanno porte automatiche, che si aprono ap­pena vengono illuminate. Che cosa vedranno rispet­tivamente le persone che si trovano sul treno e quelle che stanno sotto la pensilina?

Come d'accordo, per rispondere a questa do­manda ci baseremo soltanto su dati sperimentali.

Le persone , sedute a metà del treno vedranno quanto segue: secondo l'esperienza di Michelson la luce viaggia alla stessa velocità in tutte le direzioni relativamente al treno, cioè a 300.000 chilometri al secondo, quindi la luce raggiungerà contemporanea­mente il primo e l'ultimo vagone in nove secondi (2.700.000 : 300.000). Perciò i viaggiatori vedran­no tutte e due le porte aprirsi nello stesso istante.

Ma che cosa vedrà la gente sotto la pensilina? Anche relativamente alla stazione la luce viaggia a 300.000 chilometri al secondo. Il vagone di coda va incontro al raggio di luce. La luce arriverà quindi al vagone di coda in 

2.700.000 : (300.000 + 240.000) = 5 secondi 

Il vagone di testa, invece, si allontana dalla sorgente di luce per cui la luce deve rincorrerlo e lo raggiungerà soltanto dopo 

2.700.000 : (300.000 - 240.000) = 45 secondi

Cosí la gente in attesa sotto la pensilina vedrà che le porte del treno non si aprono nello stesso istante.

Si aprirà per prima la porta del vago­ne di coda e la porta del vagone di testa si aprirà soltanto dopo 

45 - 5 = 40 secondi'. 

In questo modo vediamo che i due eventi, l'apertura della porta di testa e quella di coda al treno, sono simultanei per la gente nel treno e separati da un intervallo di quaranta secondi per chi sta sotto la pensilina.

 

La macchina del tempo

Supponiamo ora che il treno di Einstein si muova non in linea retta,  ma percorra una linea circolare e dopo un certo tempo ritorni al punto di partenza. Co­me abbiamo gia visto, il passeggero sul treno scoprirà che il suo orologio va indietro, sempre più indietro a mano a mano che aumenta la velocita del treno. Su un percorso cir­colare continuando ad aumentare la velocità del tre­no di Einstein, potremmo arrivare a una stazione nella quale mentre per il passeggero sarà passata poco piú di un'ora, per il capostazione saranno trascorsi molti  anni.Su questa ferrovia circolare il nostro pas­seggero ritornando al punto di partenza dopo un giorno (secondo il suo orologio) troverà tutti gli ami­ci e i parenti morti da lungo tempo!
Contrariamente al caso del viaggio fra due stazio­ni, nel quale il passeggero confronta il suo orologio con altri due diversi, qui nel viaggio circolare sono confrontate le indicazioni di due orologi e non di tre, e precisamente l'orologio sul treno e quello della stazione dalla quale è iniziato il viaggio.
Esiste una contraddizione col principio di relati­vità? Potremmo ora supporre il viaggiatore a riposo e la stazione in movimento, mentre compie un viaggio circolare con la velocità del treno di Einstein? Se potessimo, giungeremmo a concludere che per chi sta alla stazione passerebbe soltanto un giorno, men­tre per chi sta nel treno passerebbero molti anni. Ma questo ragionamento non sarebbe corretto e spie­ghiamo subito perché.
Precedentemente abbiamo visto che possono essere considerati in stato di riposo soltanto gli oggetti non sottoposti all'azione di alcuna forza. In realtà non c'è un solo « stato di riposo » ma innumerevoli e multiformi e, come abbiamo visto, due corpi in quiete possono muoversi di moto rettilineo e unifor­me uno relativamente all'altro. Ma l'orologio del tre­no di Einstein è senza dubbio sottoposto alla forza centrifuga, per cui non possiamo certamente conside­rarlo a riposo. In questo caso c'è una differenza assoluta nelle indicazioni dell'orologio alla stazione, che è a riposo, e di quello sul treno di Einstein.
Se due persone con l'orologio regolato sulla stessa ora partono e s'incontrano di nuovo dopo un certo tempo, sarà trascorso piú tempo secondo l'orologio della persona che è stata a riposo o si è spostata con moto rettilineo e uniforme, cioè secondo l'orologio che non sarà sottoposto ad alcuna forza.
Un viaggio su una ferrovia circolare con una velocità prossima a quella della luce, in teoria ci permette di realizzare, seppur in un senso limitato la « macchina del tempo » di H.G. Wells: sbarcando al nostro luogo di partenza scopriremo di esserci mossi nel futuro. É vero, con questa macchina del tempo pos­siamo soltanto trasportarci nel futuro, ma non pos­siamo ritornare nel passato. Questa è la differenza maggiore rispetto alla macchina di Wells.
È futile persino sperare, che gli sviluppi futuri della scienza ci possano permettere di viaggiare nel passato. Altrimenti in teoria dovremmo accettare la possibilità di situazioni molto assurde. Perché, viag­giando nel passato, potremmo trovarci nella situazio­ne di essere delle persone i cui genitori non hanno ancor visto la luce del giorno.
Invece un viaggio nel futuro implica contraddi­zioni soltanto apparenti.

 

Valore culturale

Il monachesimo cenobitico, soprattutto quello benedettino, diffusosi in tutta l'Europa occidentale dall'Italia all'Inghilterra e dalla Francia alla Germania, ne fondò l'unità culturale e segnò l'inizio della rinascita civile del continente.   

I monasteri nell'Europa occidentale 

Quasi generale è il riconoscimento da parte degli storici della funzione civilizzatrice e culturale dei monasteri (Enc. De Agostini), in quattro settori: delle lettere, delle arti figurative, della musica, del lavoro agricolo e artigianale.

   a) Nel campo delle Lettere  di importanza capitale furono gli Scriptoria istituiti in ogni monastero benedettino. Essi diven­nero centri di recupero, di trascrizione e di conservazione dei testi antichi, non solo di contenuto religioso, ma i più vari, interessanti tutto lo scibile umano. Testi che via via andavano ad arricchire le biblioteche nelle quali ferveva un intenso lavoro di studio e di duplicazione dei testi stessi. Le biblioteche furono il presupposto necessario per lo sviluppo delle scuole: sia le scholae clausae (riservate ai religiosi), sia le scholae apertae (cui accedevano anche alunni esterni). Da questi vivai di cultura uscì una fitta schiera di uomini illu­stri, che onorarono e dominarono il loro tempo: papi, lette­rati, storici, filosofi, educatori, inventori; che vivificarono ciascuno nel proprio campo la cultura europea.

b) Nel campo dell'Arte: la necessità di costruire i monasteri nella loro varietà architettonica, come complessi di una molteplicità di servizi, portò all'affinamento dell'arte co­struttiva e di quella decorativa. La regola benedettina accanto alla preghiera prevedeva attività lavorative; accanto al chiostro e alla chiesa erano necessari vari ambienti: dormitori, cucine, refettori, alloggi per l'abate, per i monaci, per i coloni, per i servi, magazzini, officine, scuderie, stalle, portinerie, infermerie, cimiteri. Gli sviluppi di quest'arte ebbero inizio dalla ripresa dell'arte paleocristiana, prosegui­rono nella creazione dell'arte romanica prima e di quella gotica poi.

Relativamente alla decorazione dei vari ambienti, i monaste­ri importarono artisti bizantini dei quali in un primo tempo ripeterono i motivi, in tempi successivi evolsero verso forme gradualmente più originali, sostituendo i fissi e ieratici modelli bizantini con figure dotate di un certo moto drammatico. Largo contributo alla diffusione dell'arte benedettina venne dalla scuola miniatoria cassinese.

c) Nel campo della musica, particolarmente importante fu la funzione svolta dai Benedettini dal medioevo in poi. La musica gregoriana trovò nei monasteri benedettini centri di conservazione e di diffusione; in essi si svilupparono centri scrittorii e si elaborarono fondamentali innovazioni nella composizione e nella teoria del canto e della musica sacra e liturgica (da Enc. De Agostini).

d) Nel campo della produzione agricola e artigianale, l'apporto dei monaci benedettini fu notevole e decisivo. Furono i monaci a riscoprire nei testi antichi e a rimettere in atto le dimenticate tecniche di coltivazione, di allevamento del bestiame e di lavorazioni artigianali, per rispondere alle esigenze della comunità monasteriale. Tecniche via via perfezionate e insegnate agli operatori esterni.

Per tutti questi motivi i monasteri a ragione sono stati definiti fari di civiltà nel medioevo. 

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