Opuscoli

Opuscoli (47)

La vendemmia

            E’ giovedì, secondo giorno settimanale di passeggiata. E’ un bel pomeriggio autunnale. Ci troviamo a percorrere una carrabile sterrata in direzione della contrada ‘ La Nave’. Il sole scotta ancora, gli andiamo incontro e ci acceca.  

Camminiamo a gruppi, vociando allegramente. Alle nostre spalle il monte Corneta, davanti a noi ma in lontananza le dolci colline di Foiano della Chiana. Oggi siamo particolarmente contenti: siamo stati invitati ad una vendemmia.  

Qui nella Val di Chiana la vite viene fatta arrampicare sui pioppi piantati ai margini dei canali di scolo, tracciati a mo’ di rete, che disegna a grandi rettangoli la piana. Si dice che la Val di Chiana appartenga a due grandi latifondisti. I latifondi, a loro volta, sono divisi in grandi unità produttive di qualche ettaro ciascuna. Ogni unità è data in colonìa ad una famiglia di contadini che vivono in grandi cascinali affiancati da stalle dove vengono allevati grandi bovini dalle lunghe corna: i buoi destinati a trainare l’aratro, le mucche riservate alla produzione di vitelli e di latte. La terra è molto fertile: produce in prevalenza grano e mais. Quello che colpisce particolarmente me, abituato alla campagna tortorese fatta di piccoli fondi in cui gli alberi da frutta contendono lo spazio alle altre coltivazioni, è la grande estensione di ogni appezzamento in cui ogni rettangolo è equivalente all’estensione di Castrocucco. Mentre da noi i contadini conducono un vita magra, qui stanno bene e godono di un certo benessere, sono tutti comunisti dichiarati ma credenti, direi pure devoti. Questo spiega il loro invito alla vendemmia per noi.  

Arriviamo in un grande spiazzo: da un lato il cascinale con le stalle, dall’altro lato una fila di pagliai, al centro un grande tino sormontato da una capiente pigiatrice. Un uomo gira la manovella, delle donne svuotano nella tramoggia le corbe ricolme di grappoli, scaricate dai carri che provengono dai campi. L’odore del mosto appena ricopre l’acre olezzo che proviene dalle stalle. A parte ci sono due corbe traboccanti di grossi grappoli di uva bianca e di uva nera. Sono per noi. Ne prendiamo e mangiamo, dapprima in silenzio, poi sempre più allegri e scherzosi. Finiamo per scagliarci chicchi l’un l’altro. I contadini ci guardano felici e sorridenti. Il cortile risuona dei gridolini gioiosi di tutti i miei compagni, sopra di tutti i ‘babbino, babbino!’ di Santini, invocazione con la quale reagisce nei momenti di paura ma anche agli scherzi. La madre è morta alla sua nascita, lo ha allevato il padre. 

Ringraziata la generosità di quelle buone persone, ritorniamo al Rivaio.

 

 

Sul monte Mucrone

         Estate1954. Afine dell’anno scolastico è stata programmata la gita annuale in pullman. Si va al santuario di Oropa nelle prealpi che si ergono alle spalle di Biella.

         Partiamo ai primi albori. All’ora che gli operai vanno al lavoro arriviamo a Biella. Qui, scesi dal pullman per una breve pausa, un incontro inaspettato: mentre mi sgranchisco le gambe, mi si avvicina Alfonsino Perrelli, era lì per lavoro, è lui che ha individuato nel nostro gruppo Cicalese e me. Per me è una sorpresa, tanto più gradita per il fatto che questo è il primo anno che non sono sceso a Tortora per le vacanze. E’ come sentirmi per pochi minuti in Calabria, è come godere della vicinanza dei miei. Non riesco ad essere molto loquace per l’abitudine alle lunghe ore di silenzio e per la mia naturale taciturnità, in compenso sono un buon ascoltatore. L’incontro, purtroppo, è di breve durata. Ci chiamano a raccolta per risalire in pullman.

         Usciti da Biella, la vallata si biforca. Ci inoltriamo nella valle di sinistra e, salendo per13 chilometri, arriviamo nel piazzale del santuario a1180 m. di altitudine. E’ un complesso imponente, consacrato alla Madonna. Esaurite le funzioni, prendiamo i nostri zaini e diamo inizio all’escursione. Saliamo su per un sentiero che taglia a metà costa le pendici del monte Tovo. Superate le sorgenti del ruscello che, dopo essere passato accanto alla chiesa, va ad unirsi al Torrente Cervo poco prima di Biella, svoltiamo a sinistra diretti al monte Mucrone. Il sentiero è sempre più ripido fino a che diventa poco più che una traccia. La cima è già in vista davanti a noi, ma c’è un passaggio un po’ difficile per noi che siamo alla prima esperienza. Il pendio alla nostra sinistra è particolarmente ripido … , non ci sono alberi … , non ci sono arbusti … , solo un’erba di un verde intenso che sembra accentuare la pendenza. Noi inesperti procediamo con cautela, un piede dietro l’altro, inclinati a monte. Ad un tratto ad uno sfugge di mano lo zaino, che rotola giù velocemente. Mi vedo ruzzolare dietro a quello … , mi sento mancare … , mi viene il capogiro e mi assale un senso di panico … , mi fermo e mi piego sulla destra aggrappandomi all’erba. Dopo un po’ riprendo coraggio, si fa per dire! Arrancando più con le mani che con i piedi vado piano piano avanti, evitando di guardare sotto e puntando gli occhi di fronte. Superato il tratto critico arrivo sulla cima rocciosa, là dove altri erano giunti da un pezzo! Il punto più alto è contrassegnato da una croce di ferro: siamo a2335 mdi altezza. Non si vede, purtroppo, nulla … , siamo circondati da una fitta nebbia che sale dalla valle.

 

Sotto l’ippocastano

         Anche a Santa Fede la vita è organizzata come al Rivaio, tra ore di scuola, tempi di studio e momenti di ricreazione. Qui però godiamo di una maggiore autonomia: non c’è la figura del prefetto, negli spostamenti, sia interni sia esterni, non dobbiamo osservare la fila. Nelle passeggiate esterne non andiamo in un unico gruppone diretto alla stessa meta, ma in piccoli gruppi di tre o quattro diretti a mete diverse, sotto un capogruppo, di solito il più anziano.

         Le ricreazioni non dobbiamo trascorrerle obbligatoriamente tutti in uno spazio ma ognuno in uno dei luoghi a ciò destinati: la sala di lettura, le terrazze, il campo in terra battuta antistante l’abbazia.
         Il campo … è un’ampia spianata di forma rettangolare. A est il vialetto di accesso al complesso, a nord un prato più o meno triangolare adiacente la strada carrabile di Cavagnolo, a sud un campo in leggera pendenza, residenza abituale di talpe che lo arano regolarmente con le loro gallerie, a est un altro prato da cui è diviso da due giganteschi ippocastani.

         Gli ippocastani … nostri amici che ci riparano dal sole con la loro grande ombra nelle giornate estive.  Sotto ci sono delle panchine su cui riposiamo tra una partita di pallone e l’altra.

         E’ una serata di fine estate ancora calda. Seduti sulle panchine o attorno in piedi ascoltiamo le esibizioni canore di ………. , studente di teologia, che con squillante voce tenorile canta arie di opere classiche e stornellate, i gorgheggi visitano tutti i campi della musica fino alle canzonette di recente lanciate al festival di San Remo … vibrano nell’aria le note e le parole di “Vola colomba” … . Dal terrazzo più basso ci osserva e ascolta anche padre Ferrari … : passi - “mi sorrideva il sole, il cielo, il mar” - , ma alle parole - “vorrei volar dov’è il mio amor” - la sua faccia diventa scura … , ai versi - “fa che il mio amore torni, che torni presto” - le sue sopracciglia si aggrottano … , ma infine … è proprio il colmo! – “dille che non sarà più sola e mai più la lascerò” – i suoi occhi si socchiudono e diventano taglienti come lame … , al momento non dice nulla. Finiti i canti con il termine della ricreazione, ci ritiriamo nell’aula di studio … , il padre ci aspetta là … , appena seduti, investe tutti e, in particolare, il nostro usignolo con una aspra reprimenda moralistica. All’inizio non me ne spiego la ragione e non capisco! Per me quelle parole non avevano nessun significato. Ma, a pensarci bene, le ali della colomba di Nilla Pizzi portano e le campane di San Giusto lanciano, affidandolo al vento, l’anelito d’amore di un uomo alla sua donna! … Beh! … .

 

La corvèe

          Nell’istituto non c’è personale di servizio, costerebbe troppo. Alle pulizie delle camerate, delle aule, dei corridoi, dei gabinetti e dei cortili dobbiamo provvedere noi alunni a turno nel tempo della ricreazione. Ma più che il risparmio, credo, lo scopo principale di queste occupazioni è educativo: abituarci ad essere autonomi e a dare importanza al lavoro manuale. Noi, è ovvio, non ne siamo proprio felici, ma le accettiamo e alla fine vi ci abituiamo.

Ogni settimana il prefetto nomina fra gli alunni gli incaricati di ogni ambiente. Ogni incaricato stabilisce i turni e i nominativi di coloro che dovranno curare le pulizie del locale, non senza, a volte, le lamentele o proteste degli interessati che si vedono assegnati troppo frequentemente ai servizi meno graditi. Giudice della correttezza delle procedure di assegnazione è il prefetto.

Oggi tocca a me, insieme con altri due: il compagno di classe Cherubini e Ricossa del IV° ginnasio, a pulire i gabinetti.

L’ambiente dei gabinetti si trova all’estremità nord dell’aula di studio. E' composto da un disimpegno e dal vero e proprio locale dei bagni di forma rettangolare: da un lato la fila di una ventina di rubinetti e al lato opposto le dieci porte che danno l’accesso alle latrine con vasi turchi.

E’ lunedì, i vasi sono oltremodo sporchi perché la domenica non si fanno pulizie, sono quasi tutti intasati di feci e carte. Prima riempiamo dei secchi d’acqua che da distanza di sicurezza lanciamo contro l’obiettivo, ma non sempre è sufficiente a liberare i sifoni. Uno schizzo di rimbalzo colpisce in pieno viso Ricossa che non fa una piega, con la sua imperturbabile serenità va a lavarsi il viso ai lavandini vicini e si rimette al lavoro. Dobbiamo allora armeggiare con ventose, scope e molta acqua tra le amenità e le battute spiritose di Cherubini che non ci risparmia quelle più sapide suggerite dalla situazione. Io, come al solito, rido senza parlare e commentare. Raggiunto lo scopo, procediamo con il lavaggio e asciugatura dei pavimenti con gli strofinacci consegnatici. La ricreazione è quasi finita, ci laviamo e rientriamo nell’aula per le altre due ore di scuola.

          Padre Granero , nell’ora di geografia, ci legge, come d’uso, un altro brano del racconto del viaggio di James Cook[1] nei mari del sud sulle coste della Nuova Zelanda.



[1] James Cook (1728-1779), esploratore e scopritore di numerosi arcipelaghi del l’oceano Pacifico.

 

Felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni (Pascoli: L'Aquilone)

          Aveva tredici anni … , non ne rammento neppure il nome!
Febbre alta, ansiosa concitazione del rettore e dei prefetti, visita medica, vano ricovero in ospedale.
Avvisati tempestivamente, i genitori da Roma hanno fatto appena in tempo a trovare il figlio agonizzante. … Morte per meningite fulminante.
          A nulla sono servite le preghiere private e pubbliche, sommesse e solenni. Nella tragedia i padri del Rivaio avrebbero voluto vedere tutti composti nella rassegnazione e nel religioso affidamento nelle mani della divinità … , ma quella madre, buttata su quel corpicino esanime … , bestemmiava Dio che le aveva tolto l’unico figlio. L'imbarazzo dei padri, sgomenti, si palpava! … la morte e il suo mistero erano profanati in ciò che avevano di più sacro! …  sacrilegio! … un vero sacrilegio!
          Passiamo uno per uno accanto alla sua bara, senza riuscire a pregare in quel momento. Una tenue smorfia rivela le terribili sue ultime sofferenze. Il suo viso si confonde con la camicia bianca, sia l’uno,  sia l’altra spiccano nel completo blu che lo veste per l’eternità.
          “Felice te che al vento …". 
            Ma sarà poi vero? [1]


[1] “ … Io pria torrei – servir bifolco per mercede, a cui – scarso e vil cibo difendesse i giorni, - che del mondo defunto aver l’impero. … “ - risponde Achille a Ulisse nell’Averno – Odissea, libro XI, 614-617. Se intendiamo la felicità mera assenza di preoccupazioni, probabilmente Pascoli avrebbe ragione; se invece la intendiamo come soddisfazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni, essa è irrealizzabile in vita ma anche in morte, perché la morte è la cancellazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni; se infine concepiamo la felicità come appagamento dei bisogni e delle aspirazioni che è nel potere dell’uomo ottenere nella situazione in cui si trova, allora la felicità è una possibilità realizzabile solamente restando in vita poiché con la morte tutte le possibilità si azzerano. Ma alla fin fine è meglio essere vivi anche se non felici o non pienamente felici, vivi con tutte le preoccupazioni e le sofferenze che la vita comporta che morti incapaci di gioire e di soffrire. Se una felicità in questa vita è possibile essa consiste nell’operare  rettamente e nell’ambito delle proprie possibilità e nell’accettare l’esistenza così com’è con serenità. Io ancora posso essere felice. Il compagno morto non ha più la possibilità né di essere felice né di essere infelice!

 

 

L’odeon

           Nelle calde serate estive seduti sui gradini della scala, che s’incunea tra i due edifici del Rivaio, come dalle gradinate di un teatro greco, ascoltiamo, da un giradischi posto in basso, brani scelti di musica classica. Ora voliamo sulle ali dorate del “Va! Pensiero!” del “Nabucco” di Verdi, ora fremiamo alle mille invenzioni sonore di Rossini nel preludio del “Barbiere di Siviglia” e ne “La gazza ladra”, ora siamo presi nel turbinio delle note de la “La danza delle ore” di Ponchielli, o ci innalziamo nei cieli più puri con “ La Vergine degli Angeli” de “La forza del Destino” di Verdi, o ci commuoviamo fino alle lacrime alla limpida voce tenorile di Beniamino Gigli che canta “Mamma”. Non finiamo di correre leggeri leggeri dietro le note della “Primavera” di Vivaldi,  che si leva alta e vigorosa la voce de la “Casta Diva” della “Norma” di Bellini. Chiudiamo la serata inseguendo le poderose note dell’organo nella “Fuga” di Bach. 

         Sono serate per me, ma, credo, anche per gli altri, cariche di grande emozione che mi accompagnerà negli anni avvenire all’ascolto della buona musica. 

Vorrei tanto che questa passione fosse confortata dalle capacità di cantore e di suonatore, ma sono stonato e solamente un cattivo strimpellatore privo del senso del ritmo ed anche della manualità necessaria per padroneggiare la tastiera dell’armonium l’unico strumento a nostra disposizione. Io preferisco quello dell’aula della classe quarta: ha dei registri che gli conferiscono una sonorità che mi tocca, ma riesco solo a farlo gemere lamentevolmente sotto le mie dita.

Crisi della simultaneità

Facciamo un viaggio in treno.

Immaginiamo un treno. lungo 5.400.000 chilo­metri, che si muova in linea retta  a  una velocità  di 240.000 chilometri al secondo.

Supponiamo che a un certo momento a metà del treno venga accesa una lampadina. Il primo e l'ultimo vagone hanno porte automatiche, che si aprono ap­pena vengono illuminate. Che cosa vedranno rispet­tivamente le persone che si trovano sul treno e quelle che stanno sotto la pensilina?

Come d'accordo, per rispondere a questa do­manda ci baseremo soltanto su dati sperimentali.

Le persone , sedute a metà del treno vedranno quanto segue: secondo l'esperienza di Michelson la luce viaggia alla stessa velocità in tutte le direzioni relativamente al treno, cioè a 300.000 chilometri al secondo, quindi la luce raggiungerà contemporanea­mente il primo e l'ultimo vagone in nove secondi (2.700.000 : 300.000). Perciò i viaggiatori vedran­no tutte e due le porte aprirsi nello stesso istante.

Ma che cosa vedrà la gente sotto la pensilina? Anche relativamente alla stazione la luce viaggia a 300.000 chilometri al secondo. Il vagone di coda va incontro al raggio di luce. La luce arriverà quindi al vagone di coda in 

2.700.000 : (300.000 + 240.000) = 5 secondi 

Il vagone di testa, invece, si allontana dalla sorgente di luce per cui la luce deve rincorrerlo e lo raggiungerà soltanto dopo 

2.700.000 : (300.000 - 240.000) = 45 secondi

Cosí la gente in attesa sotto la pensilina vedrà che le porte del treno non si aprono nello stesso istante.

Si aprirà per prima la porta del vago­ne di coda e la porta del vagone di testa si aprirà soltanto dopo 

45 - 5 = 40 secondi'. 

In questo modo vediamo che i due eventi, l'apertura della porta di testa e quella di coda al treno, sono simultanei per la gente nel treno e separati da un intervallo di quaranta secondi per chi sta sotto la pensilina.

 

La macchina del tempo

Supponiamo ora che il treno di Einstein si muova non in linea retta,  ma percorra una linea circolare e dopo un certo tempo ritorni al punto di partenza. Co­me abbiamo gia visto, il passeggero sul treno scoprirà che il suo orologio va indietro, sempre più indietro a mano a mano che aumenta la velocita del treno. Su un percorso cir­colare continuando ad aumentare la velocità del tre­no di Einstein, potremmo arrivare a una stazione nella quale mentre per il passeggero sarà passata poco piú di un'ora, per il capostazione saranno trascorsi molti  anni.Su questa ferrovia circolare il nostro pas­seggero ritornando al punto di partenza dopo un giorno (secondo il suo orologio) troverà tutti gli ami­ci e i parenti morti da lungo tempo!
Contrariamente al caso del viaggio fra due stazio­ni, nel quale il passeggero confronta il suo orologio con altri due diversi, qui nel viaggio circolare sono confrontate le indicazioni di due orologi e non di tre, e precisamente l'orologio sul treno e quello della stazione dalla quale è iniziato il viaggio.
Esiste una contraddizione col principio di relati­vità? Potremmo ora supporre il viaggiatore a riposo e la stazione in movimento, mentre compie un viaggio circolare con la velocità del treno di Einstein? Se potessimo, giungeremmo a concludere che per chi sta alla stazione passerebbe soltanto un giorno, men­tre per chi sta nel treno passerebbero molti anni. Ma questo ragionamento non sarebbe corretto e spie­ghiamo subito perché.
Precedentemente abbiamo visto che possono essere considerati in stato di riposo soltanto gli oggetti non sottoposti all'azione di alcuna forza. In realtà non c'è un solo « stato di riposo » ma innumerevoli e multiformi e, come abbiamo visto, due corpi in quiete possono muoversi di moto rettilineo e unifor­me uno relativamente all'altro. Ma l'orologio del tre­no di Einstein è senza dubbio sottoposto alla forza centrifuga, per cui non possiamo certamente conside­rarlo a riposo. In questo caso c'è una differenza assoluta nelle indicazioni dell'orologio alla stazione, che è a riposo, e di quello sul treno di Einstein.
Se due persone con l'orologio regolato sulla stessa ora partono e s'incontrano di nuovo dopo un certo tempo, sarà trascorso piú tempo secondo l'orologio della persona che è stata a riposo o si è spostata con moto rettilineo e uniforme, cioè secondo l'orologio che non sarà sottoposto ad alcuna forza.
Un viaggio su una ferrovia circolare con una velocità prossima a quella della luce, in teoria ci permette di realizzare, seppur in un senso limitato la « macchina del tempo » di H.G. Wells: sbarcando al nostro luogo di partenza scopriremo di esserci mossi nel futuro. É vero, con questa macchina del tempo pos­siamo soltanto trasportarci nel futuro, ma non pos­siamo ritornare nel passato. Questa è la differenza maggiore rispetto alla macchina di Wells.
È futile persino sperare, che gli sviluppi futuri della scienza ci possano permettere di viaggiare nel passato. Altrimenti in teoria dovremmo accettare la possibilità di situazioni molto assurde. Perché, viag­giando nel passato, potremmo trovarci nella situazio­ne di essere delle persone i cui genitori non hanno ancor visto la luce del giorno.
Invece un viaggio nel futuro implica contraddi­zioni soltanto apparenti.

 

Valore culturale

Il monachesimo cenobitico, soprattutto quello benedettino, diffusosi in tutta l'Europa occidentale dall'Italia all'Inghilterra e dalla Francia alla Germania, ne fondò l'unità culturale e segnò l'inizio della rinascita civile del continente.   

I monasteri nell'Europa occidentale 

Quasi generale è il riconoscimento da parte degli storici della funzione civilizzatrice e culturale dei monasteri (Enc. De Agostini), in quattro settori: delle lettere, delle arti figurative, della musica, del lavoro agricolo e artigianale.

   a) Nel campo delle Lettere  di importanza capitale furono gli Scriptoria istituiti in ogni monastero benedettino. Essi diven­nero centri di recupero, di trascrizione e di conservazione dei testi antichi, non solo di contenuto religioso, ma i più vari, interessanti tutto lo scibile umano. Testi che via via andavano ad arricchire le biblioteche nelle quali ferveva un intenso lavoro di studio e di duplicazione dei testi stessi. Le biblioteche furono il presupposto necessario per lo sviluppo delle scuole: sia le scholae clausae (riservate ai religiosi), sia le scholae apertae (cui accedevano anche alunni esterni). Da questi vivai di cultura uscì una fitta schiera di uomini illu­stri, che onorarono e dominarono il loro tempo: papi, lette­rati, storici, filosofi, educatori, inventori; che vivificarono ciascuno nel proprio campo la cultura europea.

b) Nel campo dell'Arte: la necessità di costruire i monasteri nella loro varietà architettonica, come complessi di una molteplicità di servizi, portò all'affinamento dell'arte co­struttiva e di quella decorativa. La regola benedettina accanto alla preghiera prevedeva attività lavorative; accanto al chiostro e alla chiesa erano necessari vari ambienti: dormitori, cucine, refettori, alloggi per l'abate, per i monaci, per i coloni, per i servi, magazzini, officine, scuderie, stalle, portinerie, infermerie, cimiteri. Gli sviluppi di quest'arte ebbero inizio dalla ripresa dell'arte paleocristiana, prosegui­rono nella creazione dell'arte romanica prima e di quella gotica poi.

Relativamente alla decorazione dei vari ambienti, i monaste­ri importarono artisti bizantini dei quali in un primo tempo ripeterono i motivi, in tempi successivi evolsero verso forme gradualmente più originali, sostituendo i fissi e ieratici modelli bizantini con figure dotate di un certo moto drammatico. Largo contributo alla diffusione dell'arte benedettina venne dalla scuola miniatoria cassinese.

c) Nel campo della musica, particolarmente importante fu la funzione svolta dai Benedettini dal medioevo in poi. La musica gregoriana trovò nei monasteri benedettini centri di conservazione e di diffusione; in essi si svilupparono centri scrittorii e si elaborarono fondamentali innovazioni nella composizione e nella teoria del canto e della musica sacra e liturgica (da Enc. De Agostini).

d) Nel campo della produzione agricola e artigianale, l'apporto dei monaci benedettini fu notevole e decisivo. Furono i monaci a riscoprire nei testi antichi e a rimettere in atto le dimenticate tecniche di coltivazione, di allevamento del bestiame e di lavorazioni artigianali, per rispondere alle esigenze della comunità monasteriale. Tecniche via via perfezionate e insegnate agli operatori esterni.

Per tutti questi motivi i monasteri a ragione sono stati definiti fari di civiltà nel medioevo. 

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