‘Lu serivamìendu’, eredità del sistema feudale, era la corvé. Nel diritto feudale i servi della gleba erano tenuti a una serie di prestazioni personali (per lo più giornate di lavoro senza retribuzione) a favore del signore.
Inizialmente, quindi, ‘lu serivamìendu’ era un atto di servizio gratuito prestato controvoglia ma con timore reverenziale. Di qui gli ingredienti che contraddistinguono il concetto di ‘serivamìendu’: la gratuità e quindi la perdita economica, il malanimo e, infine, la rassegnazione dettata dalla paura.
Finita l’epoca feudale, il termine è passato ad indicare qualsiasi attività prestata o qualsiasi passaggio di proprietà di oggetti con evasione della retribuzione o per frode o per inadempienza del destinatario.
Don Ruggìeru si fa confezionare un vestito dal sarto mastro Cicchìnu. Pur concordati prezzo e data di pagamento, don Ruggiero non adempie al suo obbligo. Mastro Cicchìnu, a malincuore, si deve rassegnare, anche per timore reverenziale nei confronti del primo. Nel rinunciare al compenso esclama: ‘si nn’è gghjùtu ‘n zerivamìendu’!
Mataléna ha dato in prestito una pentola a donna Clurìnda che si è dimenticata di restituirgliela. Mataléna non ha il coraggio di chiedere la restituzione dell’oggetto per non offendere la signora. Rassegnata, esclama: ‘si nn’è gghjùta ‘n zerivamìendu’!
Michelangelo Pucci