Il detto deriva dal dramma esistenziale della scarsità alimentare delle classi povere e da una usanza vigente fino agli anni quaranta del 1900.
Fino a quell’epoca, quando le possibilità di lavoro erano ristrette solo al campo agricolo e artigianale, il reddito dei ceti popolari era scarso per il fenomeno dello sfruttamento del lavoro manuale mal retribuito quando lo era. Di conseguenza anche il rifornimento alimentare era aleatorio e povero. In questa situazione la fame era cronica in vaste aree della popolazione e l’aspirazione ad abbondanti pasti era un sogno ad occhi chiusi e ad occhi aperti di parecchie persone.
Questo sogno poteva avverarsi in particolari occasioni, specie quando si andava a lavorare ‘ànni spìsi’ o nei campi per attività agricole o a casa del datore di lavoro per prestazioni artigianali (Vedi: ‘Màstu Michilìcchju e li fasùli. dalla raccolta ‘Fàtti chi si cùndani’).
Quando il datore di lavoro era un benestante l’aspirazione ad una buona mangiata era fondata ma non scontata. Spesse volte però, la taccagneria del ‘padrone’ o le ingannatrici apparenze di ricchezza portavano alle delusioni più cocenti e facevano dire ai malcapitati: ‘addùvi ti crédisi di féa’ na bbòna mangiéata, ddéa’ réstasi dijùnu!’
Michelangelo Pucci