La trebbiatura

La trebbiatura del grano, oltre che lavoro e fatica, era anche una molto attesa.

Dopo la mietitura, portata a termine nei giorni precedenti, scaricati i covoni nelle adiacenze dell’aia, il giorno stabilito di buon mattino si pone al traino di buoi aggiogati o, in loro mancanza, di un asino un grosso ceppo di legno.
Un ragazzo con una cavezza (capìstu) guida le bestie in circolo nell’aia in modo da far loro calpestare i covoni (grègni) slegati e stesi sul pavimento e in maniera da farli triturare dal ceppo.
Due o più persone con forconi (fircòni) di legno a tre rebbi rivoltano paglia e spighe e le spingono sotto gli animali e il ceppo (zippòni) in movimento. Dopo tre o quattro ore di questo trattamento, separata la paglia dalle spighe e triturate le spighe anche i chicchi di grano escono dal loro involucro e si separano dalla pula.
A questo punto si portano via le bestie. Con i forconi e con rastrelli (rastìeddi) di legno si tira via la paglia e si mette mano alle pale, pure esse di legno. Un paio di persone, da lati opposti, lanciano in alto con le pale il grano con movimenti alterni. La brezza spinge qualche metro più in là la pula, mentre il grano ricade verticalmente. In questo modo il grano si netta dalla pula, pronto per essere insaccato, caricato sugli asini, portato a casa e conservato nei cassoni al riparo dai topi e dagli insetti infestanti.
La trebbiatura era non solo un lavoro ma anche una festa. Le varie operazioni erano accompagnate da canti popolari, dai frizzi e dalle battute dei più spiritosi. Era l’occasione di incontri e conoscenze.
I ragazzi, appena fioriti alla virilità divenuti sensibili alle grazie femminili e i giovani in attesa del loro amore per la vita seguono le ragazze nei movimenti di lavoro e nelle movenze che ne sottolineano le ‘curve’, rese più attraenti dal rossore provocato dal sole e dalla fatica.
Sbocciano amicizie e amori più o meno segreti, che poi si ufficializzano ‘cu li masciéati’.
Anche uomini e donne sposate, compresi gli anziani, si risvegliano al ‘pizzicor d’amore’ che sfogano almeno a parole e, i più arditi, con qualche pizzico. 

                                                                       Michelangelo Pucci

 

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