Allibbirtìsci

Ad libertatem ire, andare verso la libertà, liberarsi, non da vincoli o catene, ma da un onere, da un peso, da un ingombro, sgravarsi.

In quest’ultima accezione la donna gravida allibbirtìsci, partorisce. In questo evento naturale è in dubbio chi guadagna la libertà: se la madre o se il bambino. E’ la madre che si libera del bambino o è questi che si libera della madre?
E’ vero che la madre nel corso della gravidanza, oltre a sopportare un ‘peso’ in più e a soffrire di un ingombro volumetrico a volte imbarazzante,  subisce delle limitazioni nei movimenti e nelle attività dovute alla presenza del bambino.
E’ vero che, giunto il momento, delle potenti contrazioni addominali espellono il piccolo dall’utero nel mondo esterno.
Ma quello che è certo è che la madre non vuole liberarsi di lui. Le donne, salvo rarissime tragiche eccezioni, restano affettivamente e fisiologicamente attaccate ai loro bambini, se li tengono stretti al seno, quasi volessero incorporarli, ne vanno fiere e soffrono quando essi da grandi se ne distaccano per vivere la loro vita.
Allora, si potrebbe pensare, è il bambino che si libera come da una prigione. Ma è proprio così? Se fosse vera questa seconda ipotesi come potremmo spiegare il trauma psicologico della nascita, ben conosciuto dalla psicoanalisi, e il desiderio inconscio del ritorno al ventre materno che si esprime in forme simboliche in tutto il corso della vita?

Michelangelo Pucci

 

 

 

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