Anche a Santa Fede la vita è organizzata come al Rivaio, tra ore di scuola, tempi di studio e momenti di ricreazione. Qui però godiamo di una maggiore autonomia: non c’è la figura del prefetto, negli spostamenti, sia interni sia esterni, non dobbiamo osservare la fila. Nelle passeggiate esterne non andiamo in un unico gruppone diretto alla stessa meta, ma in piccoli gruppi di tre o quattro diretti a mete diverse, sotto un capogruppo, di solito il più anziano.
Le ricreazioni non dobbiamo trascorrerle obbligatoriamente tutti in uno spazio ma ognuno in uno dei luoghi a ciò destinati: la sala di lettura, le terrazze, il campo in terra battuta antistante l’abbazia.
Il campo … è un’ampia spianata di forma rettangolare. A est il vialetto di accesso al complesso, a nord un prato più o meno triangolare adiacente la strada carrabile di Cavagnolo, a sud un campo in leggera pendenza, residenza abituale di talpe che lo arano regolarmente con le loro gallerie, a est un altro prato da cui è diviso da due giganteschi ippocastani.
Gli ippocastani … nostri amici che ci riparano dal sole con la loro grande ombra nelle giornate estive. Sotto ci sono delle panchine su cui riposiamo tra una partita di pallone e l’altra.
E’ una serata di fine estate ancora calda. Seduti sulle panchine o attorno in piedi ascoltiamo le esibizioni canore di ………. , studente di teologia, che con squillante voce tenorile canta arie di opere classiche e stornellate, i gorgheggi visitano tutti i campi della musica fino alle canzonette di recente lanciate al festival di San Remo … vibrano nell’aria le note e le parole di “Vola colomba” … . Dal terrazzo più basso ci osserva e ascolta anche padre Ferrari … : passi - “mi sorrideva il sole, il cielo, il mar” - , ma alle parole - “vorrei volar dov’è il mio amor” - la sua faccia diventa scura … , ai versi - “fa che il mio amore torni, che torni presto” - le sue sopracciglia si aggrottano … , ma infine … è proprio il colmo! – “dille che non sarà più sola e mai più la lascerò” – i suoi occhi si socchiudono e diventano taglienti come lame … , al momento non dice nulla. Finiti i canti con il termine della ricreazione, ci ritiriamo nell’aula di studio … , il padre ci aspetta là … , appena seduti, investe tutti e, in particolare, il nostro usignolo con una aspra reprimenda moralistica. All’inizio non me ne spiego la ragione e non capisco! Per me quelle parole non avevano nessun significato. Ma, a pensarci bene, le ali della colomba di Nilla Pizzi portano e le campane di San Giusto lanciano, affidandolo al vento, l’anelito d’amore di un uomo alla sua donna! … Beh! … .
Nell’istituto non c’è personale di servizio, costerebbe troppo. Alle pulizie delle camerate, delle aule, dei corridoi, dei gabinetti e dei cortili dobbiamo provvedere noi alunni a turno nel tempo della ricreazione. Ma più che il risparmio, credo, lo scopo principale di queste occupazioni è educativo: abituarci ad essere autonomi e a dare importanza al lavoro manuale. Noi, è ovvio, non ne siamo proprio felici, ma le accettiamo e alla fine vi ci abituiamo.
Ogni settimana il prefetto nomina fra gli alunni gli incaricati di ogni ambiente. Ogni incaricato stabilisce i turni e i nominativi di coloro che dovranno curare le pulizie del locale, non senza, a volte, le lamentele o proteste degli interessati che si vedono assegnati troppo frequentemente ai servizi meno graditi. Giudice della correttezza delle procedure di assegnazione è il prefetto.
Oggi tocca a me, insieme con altri due: il compagno di classe Cherubini e Ricossa del IV° ginnasio, a pulire i gabinetti.
L’ambiente dei gabinetti si trova all’estremità nord dell’aula di studio. E' composto da un disimpegno e dal vero e proprio locale dei bagni di forma rettangolare: da un lato la fila di una ventina di rubinetti e al lato opposto le dieci porte che danno l’accesso alle latrine con vasi turchi.
E’ lunedì, i vasi sono oltremodo sporchi perché la domenica non si fanno pulizie, sono quasi tutti intasati di feci e carte. Prima riempiamo dei secchi d’acqua che da distanza di sicurezza lanciamo contro l’obiettivo, ma non sempre è sufficiente a liberare i sifoni. Uno schizzo di rimbalzo colpisce in pieno viso Ricossa che non fa una piega, con la sua imperturbabile serenità va a lavarsi il viso ai lavandini vicini e si rimette al lavoro. Dobbiamo allora armeggiare con ventose, scope e molta acqua tra le amenità e le battute spiritose di Cherubini che non ci risparmia quelle più sapide suggerite dalla situazione. Io, come al solito, rido senza parlare e commentare. Raggiunto lo scopo, procediamo con il lavaggio e asciugatura dei pavimenti con gli strofinacci consegnatici. La ricreazione è quasi finita, ci laviamo e rientriamo nell’aula per le altre due ore di scuola.
Padre Granero , nell’ora di geografia, ci legge, come d’uso, un altro brano del racconto del viaggio di James Cook[1] nei mari del sud sulle coste della Nuova Zelanda.
[1] James Cook (1728-1779), esploratore e scopritore di numerosi arcipelaghi del l’oceano Pacifico.
Felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni (Pascoli: L'Aquilone)
Aveva tredici anni … , non ne rammento neppure il nome!
Febbre alta, ansiosa concitazione del rettore e dei prefetti, visita medica, vano ricovero in ospedale.
Avvisati tempestivamente, i genitori da Roma hanno fatto appena in tempo a trovare il figlio agonizzante. … Morte per meningite fulminante.
A nulla sono servite le preghiere private e pubbliche, sommesse e solenni. Nella tragedia i padri del Rivaio avrebbero voluto vedere tutti composti nella rassegnazione e nel religioso affidamento nelle mani della divinità … , ma quella madre, buttata su quel corpicino esanime … , bestemmiava Dio che le aveva tolto l’unico figlio. L'imbarazzo dei padri, sgomenti, si palpava! … la morte e il suo mistero erano profanati in ciò che avevano di più sacro! … sacrilegio! … un vero sacrilegio!
Passiamo uno per uno accanto alla sua bara, senza riuscire a pregare in quel momento. Una tenue smorfia rivela le terribili sue ultime sofferenze. Il suo viso si confonde con la camicia bianca, sia l’uno, sia l’altra spiccano nel completo blu che lo veste per l’eternità.
“Felice te che al vento …".
Ma sarà poi vero? [1]
[1] “ … Io pria torrei – servir bifolco per mercede, a cui – scarso e vil cibo difendesse i giorni, - che del mondo defunto aver l’impero. … “ - risponde Achille a Ulisse nell’Averno – Odissea, libro XI, 614-617. Se intendiamo la felicità mera assenza di preoccupazioni, probabilmente Pascoli avrebbe ragione; se invece la intendiamo come soddisfazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni, essa è irrealizzabile in vita ma anche in morte, perché la morte è la cancellazione di tutti i bisogni e di tutte le aspirazioni; se infine concepiamo la felicità come appagamento dei bisogni e delle aspirazioni che è nel potere dell’uomo ottenere nella situazione in cui si trova, allora la felicità è una possibilità realizzabile solamente restando in vita poiché con la morte tutte le possibilità si azzerano. Ma alla fin fine è meglio essere vivi anche se non felici o non pienamente felici, vivi con tutte le preoccupazioni e le sofferenze che la vita comporta che morti incapaci di gioire e di soffrire. Se una felicità in questa vita è possibile essa consiste nell’operare rettamente e nell’ambito delle proprie possibilità e nell’accettare l’esistenza così com’è con serenità. Io ancora posso essere felice. Il compagno morto non ha più la possibilità né di essere felice né di essere infelice!
Nelle calde serate estive seduti sui gradini della scala, che s’incunea tra i due edifici del Rivaio, come dalle gradinate di un teatro greco, ascoltiamo, da un giradischi posto in basso, brani scelti di musica classica. Ora voliamo sulle ali dorate del “Va! Pensiero!” del “Nabucco” di Verdi, ora fremiamo alle mille invenzioni sonore di Rossini nel preludio del “Barbiere di Siviglia” e ne “La gazza ladra”, ora siamo presi nel turbinio delle note de la “La danza delle ore” di Ponchielli, o ci innalziamo nei cieli più puri con “ La Vergine degli Angeli” de “La forza del Destino” di Verdi, o ci commuoviamo fino alle lacrime alla limpida voce tenorile di Beniamino Gigli che canta “Mamma”. Non finiamo di correre leggeri leggeri dietro le note della “Primavera” di Vivaldi, che si leva alta e vigorosa la voce de la “Casta Diva” della “Norma” di Bellini. Chiudiamo la serata inseguendo le poderose note dell’organo nella “Fuga” di Bach.
Sono serate per me, ma, credo, anche per gli altri, cariche di grande emozione che mi accompagnerà negli anni avvenire all’ascolto della buona musica.
Vorrei tanto che questa passione fosse confortata dalle capacità di cantore e di suonatore, ma sono stonato e solamente un cattivo strimpellatore privo del senso del ritmo ed anche della manualità necessaria per padroneggiare la tastiera dell’armonium l’unico strumento a nostra disposizione. Io preferisco quello dell’aula della classe quarta: ha dei registri che gli conferiscono una sonorità che mi tocca, ma riesco solo a farlo gemere lamentevolmente sotto le mie dita.
Siamo nel mese di settembre del 1950. Siamo rientrati dalle vacanze da 25 giorni. Prima di cominciare il regolare corso delle lezioni viene programmata la gita annuale sul Monte Sant'Egidio. E’ una montagnola di1057 metri sul livello del mare sita a sud-est di Castiglion Fiorentino e a nord-est di Cortona. Partiamo di buon mattino a piedi per coprire un percorso di una decina di chilometri. Ai più robusti della IV e V classe il compito di portare a spalla la marmitta, il pentolame, i piatti di carta, le posate e le cibarie crude.
Per la prima metà del tragitto seguiamo una stradina sterrata fino a Ristonghia, piccolo nucleo di case a circa500 metridi altezza, la seconda metà è un sentiero che si inerpica tra arbusti e radi alberi.
Per ingannare la stanchezza delle gambe, che si fa sentire a mano a mano che saliamo, ci teniamo su con ‘la montanara’, ‘la pastorela’, ‘la tradotta’, ‘la canzone del Piave’ e altre del repertorio.
Giunti in cima respiriamo a pieni polmoni. Dopo alcuni minuti di riposo, diamo inizio all’esplorazione nei dintorni anche allo scopo di procurare ai cuochi sterpaglie e legnetti secchi per cuocere la pasta e la carne. Il lato sud della cima è incorniciato da un boschetto di larici. A sud ovest si intravedono in basso i tetti di Cortona. Ad ovest ammiriamo in tutta la sua estensionela Valdi Chiana. Ad est il territorio si estende ondulato tra valli e alture, tra le quali i monti Castel Giudeo, Ginozzo e della Croce, un po’ meno elevati del punto in cui siamo. A nord est in una valle, che a tratti si allarga e a tratti si restringe, scorre il torrente Nestore, affluente del Tevere. La radura adiacente il boschetto è coperta di lamponi, ne mangiamo e ne raccogliamo in abbondanza anche per portarne a casa. E’ la prima volta che vedo lamponi! Mi ricordano le more dei rovi che fanno da siepe ai campi della Marina di Tortora, delle quali ero solito fare delle scorpacciate.
Il pranzo è servito caldo e fumante. Ci sparpagliamo per la radura, ciascuno alla ricerca di un sedile di fortuna. Chi trova un sasso, chi un tronco, chi uno spuntone di roccia, chi, infine, si siede per terra sull’erba. Anche se bisogna evitare di frequentare sempre gli stessi compagni, io prendo posto nelle vicinanze di Reale. E’ un compagno di classe, laziale, capelli neri pettinati di traverso sulla fronte, buono, quanto è alto, tanto è timido, per questo oggetto dei miei frizzi e scherzi dai quali si schermisce lanciando dei gridolini come un bambino.
Il ritorno è accompagnato dai soliti canti, ma le voci sono più stanche come le gambe e a sera non abbiamo bisogno di contare le pecore per addormentarci profondamente.
E’ giovedì, secondo giorno settimanale di passeggiata. E’ un bel pomeriggio autunnale. Ci troviamo a percorrere una carrabile sterrata in direzione della contrada ‘ La Nave’. Il sole scotta ancora, gli andiamo incontro e ci acceca.
Camminiamo a gruppi, vociando allegramente. Alle nostre spalle il monte Corneta, davanti a noi ma in lontananza le dolci colline di Foiano della Chiana. Oggi siamo particolarmente contenti: siamo stati invitati ad una vendemmia.
Qui nella Val di Chiana la vite viene fatta arrampicare sui pioppi piantati ai margini dei canali di scolo, tracciati a mo’ di rete, che disegna a grandi rettangoli la piana. Si dice che la Val di Chiana appartenga a due grandi latifondisti. I latifondi, a loro volta, sono divisi in grandi unità produttive di qualche ettaro ciascuna. Ogni unità è data in colonìa ad una famiglia di contadini che vivono in grandi cascinali affiancati da stalle dove vengono allevati grandi bovini dalle lunghe corna: i buoi destinati a trainare l’aratro, le mucche riservate alla produzione di vitelli e di latte. La terra è molto fertile: produce in prevalenza grano e mais. Quello che colpisce particolarmente me, abituato alla campagna tortorese fatta di piccoli fondi in cui gli alberi da frutta contendono lo spazio alle altre coltivazioni, è la grande estensione di ogni appezzamento in cui ogni rettangolo è equivalente all’estensione di Castrocucco. Mentre da noi i contadini conducono un vita magra, qui stanno bene e godono di un certo benessere, sono tutti comunisti dichiarati ma credenti, direi pure devoti. Questo spiega il loro invito alla vendemmia per noi.
Arriviamo in un grande spiazzo: da un lato il cascinale con le stalle, dall’altro lato una fila di pagliai, al centro un grande tino sormontato da una capiente pigiatrice. Un uomo gira la manovella, delle donne svuotano nella tramoggia le corbe ricolme di grappoli, scaricate dai carri che provengono dai campi. L’odore del mosto appena ricopre l’acre olezzo che proviene dalle stalle. A parte ci sono due corbe traboccanti di grossi grappoli di uva bianca e di uva nera. Sono per noi. Ne prendiamo e mangiamo, dapprima in silenzio, poi sempre più allegri e scherzosi. Finiamo per scagliarci chicchi l’un l’altro. I contadini ci guardano felici e sorridenti. Il cortile risuona dei gridolini gioiosi di tutti i miei compagni, sopra di tutti i ‘babbino, babbino!’ di Santini, invocazione con la quale reagisce nei momenti di paura ma anche agli scherzi. La madre è morta alla sua nascita, lo ha allevato il padre.
Ringraziata la generosità di quelle buone persone, ritorniamo al Rivaio.
E’ spesso meta delle nostre passeggiate. Il posto, a tre-quattro chilometri a nord di Castiglion Fiorentino, ha un incanto particolare per la presenza di boschetti e di un ruscello che gorgoglia allegro tra i sassi e la vegetazione. Di qua c’è qualche casetta di contadini, di là una bella chiesetta che occhieggia tra i rami delle querce.
Cresciuto quasi nel greto del Noce, abituato a passare il tempo nel periodo estivo trastullandomi nei giochi di canalizzazioni e cascatelle e diguazzando coi piedi nell’acqua, non mi pare vero di trovarmi anche qui sulle rive di un corso d’acqua.
Mentre gli altri si sfrenano a gettare sassi nelle conche divertendosi alle grida di chi viene colpito dagli schizzi, mi diverto anche qui, in solitario, con le mani nell’acqua a creare deviazioni e piccoli corsi artificiali a diversa pendenza per osservare l’effetto erosivo della corrente nelle anse. E’ qui che nel mio immaginario ambiento, chissà perché, la favola del lupo e dell’agnello. Per me è il paradiso terrestre! Peccato che il tempo passa rapido ed in breve bisogna lasciare tutto e rientrare al Rivaio!.
E’ martedì, primo giorno settimanale di passeggiata. Ci incamminiamo lungo la via Cassia nella direzione di Arezzo. Dopo un primo tratto in fila per due, arriva l’ordine di ‘rompete le righe!’ e continuiamo in piccoli gruppetti lungo il margine destro della strada. Dopo circa un chilometro svoltiamo a destra per una stradina di campagna.
Ci accompagna un sole primaverile che va e viene dietro le nuvole. Chi, di nascosto, caccia le lucertole, chi con bastoni di fortuna, raccolti via facendo, batte i cespugli, chi caracolla avanti e dietro padre Granero che ci accompagna e che intrattiene il gruppo a lui più vicino con racconti sulla sua vita di studente. Dopo circa mezz’ora arriviamo ad una collinetta boscosa detta ‘il vulcano’ forse per la sua forma conica. I suoi declivi sono dolci e coperti da cespugli di piante varie e da radi alberi di pino. Nella piccola radura sulla cima organizziamo il gioco.
Ci dividiamo nelle due squadre dei soliti greci e troiani. Si tratta di una guerra finta in cui i componenti di ogni squadra, dopo aver preso posizione in zone opposte della collinetta, avanzano in direzione dei ‘nemici’ nel tentativo di conquistarne il territorio. Nell’avanzata ognuno procede nascosto fra i cespugli per non farsi vedere dagli avversari. Chi si espone ed è visto viene chiamato per nome, fatto in tal modo prigioniero, deve uscire dal gioco e ritirarsi nella radura. Vince la squadra che, eliminando tutti i ‘nemici’, ne conquista il territorio. Padre Granero è sempre pronto con bonarietà a dirimere il frequente contenzioso tra i contendenti. - “Ti ho visto!” – “No, non mi hai visto!” - . Mentre le avanguardie avanzano, alcuni della retroguardia si attardano fra i cespugli in attività di esplorazione autonoma del bosco. Vanno a costituire i ‘dispersi’ che non fanno tornare i conti nella numerazione dei prigionieri e lasciano incerto l’esito della ‘guerra’. - Cherubini … ! Belli … ! … Cherubiniii … ! Belliii … ! – Finalmente spuntano da campi opposti. Sono gli ultimi ‘dispersi’ … . Il primo guadagna la radura saltellando … , si era attardato dietro delle coccinelle di cui stringeva in mano un esemplare. Il secondo, un sognatore, si era fermato a studiare dei fiori di biancospino e raccolto una violacciocca.
Ora che siamo tutti possiamo tornare. Ci attende, nelle due ore di studio, l’ira di Achille per la perdita della sua bella Briseide!
Ottobre 1948. Nel primo pomeriggio, in comitiva, lasciamo Via Cernaia[1] diretti alla stazione Termini. Viaggiamo tutti insieme in un vagone dai sedili di legno. Resto tutto il tempo con il naso incollato al vetro del finestrino. Mi piace osservare il paesaggio: scorrono davanti ai miei occhi il fiume Tevere che si torce in numerose anse, le colline a declivio dolce e verdi di filari di vite così diverse dalle nostre brulle e pietrose, le pianure coltivate a granoturco, il lago Trasimeno, la Val di Chiana disegnata in ampi rettangoli delimitati da filari di pioppo e da ampi e diritti canali di prosciugamento. Scendiamo a Castiglion Fiorentino[2]. Ognuno trascinando la propria valigia, percorriamo faticosamente il tratto che ci separa dalla nostra meta. Al cancello del Rivaio[3]siamo accolti dal volto aperto, gioviale e scherzoso di Padre Granero che ci accompagna in camerata per una rinfrescata e per la sistemazione dei letti ognuno con le lenzuola e le coperte portate nel proprio bagaglio. A cose fatte scendiamo per la cena. Il refettorio è un ampio stanzone con la volta a botte dipinta, come le pareti, in colore beige.
Il pane bianco sulla tavola è veramente invitante. Ancora non lo si può toccare: la preghiera di ringraziamento del pasto non è terminata! All’ “amen” ci sediamo, ma ancora nessuno allunga la mano verso il cesto per non sembrare allupato! Ma la fame c’è, eccome! Timidamente, dopo alcuni secondi di esitazione, con movimento lento stendo la mano e prendo una bella fetta assaporandola con gli occhi. Al primo morso la masticazione si arresta con disgusto! … Ma che è? … Questo non è pane!
Guardo in faccia i dirimpettai e leggo nei loro occhi la stessa delusione! Sono laziali.
Più in là, altri continuano a mangiare con appetito! Sono toscani.
Non possiamo parlare! Durante i pasti vige il silenzio. Risuona nell’ampio refettorio, dal podio collocato tra la tavola dei professori e le tavolate degli alunni, la sola voce del lettore di turno: – Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo … costretti dalla fame … picchieremo e chiameremo e pregheremo (il portinaio) per l’amor di Dio con gran pianto, che ci apra, e quelli più scandalizzato dirà: “costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come son degni”, e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involveracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone; se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, … o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia. –[4]
Incasso il messaggio. Ingoio il boccone e la delusione e continuo la cena a base di minestra. Osservo i più anziani che spezzettano il pane nel brodo della minestra; li imito … così il sapore è più accettabile.
Per l’eccezionalità dell’evento: l’arrivo di noi nuovi, il padre superiore dà il “Deo gratias”, parola magica che apre la conversazione.
L’effetto è un boato, non per l’urlo dei singoli, ma per la somma di settantacinque voci, che anche in tono normale, esplodono tutte insieme. Noi nuovi arrivati siamo bombardati dalle domande dei più anziani che vogliono sapere i nostri nomi, da dove veniamo … - ah! Dalla Calabria! – la loro voce si mozza, mentre i loro occhi ci si fissano addosso nella meraviglia che siamo degli esseri umani … come gli altri ragazzi!
Esaudite le loro curiosità, chiediamo del pane … - è senza sale! così si usa in Toscana!
“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui … “ [5].
Per Dante è una delle pene connesse all’esilio. Per me sarà un sacrificio derivante da una scelta più o meno indotta.
[1]Via di Roma, poco distante dalla stazione Termini, dove ha sede il Superiore Provinciale dei padri Maristi.
[2]Comune in provincia di Arezzo ai margini orientali della Val di Chiana.
[3]Nome della contrada di Castiglion Fiorentino dove sorge il santuario della Madonna omonima e della scuola dei Maristi, congregazione religiosa votata al culto di Maria.
[4]Da “I fioretti di S. Francesco”
[5]Dante Alighieri: “La divina Commedia" – Paradiso, Canto XVII, 58